Il senso pratico, si direbbe cinico, di quel Napoli, è nella capacità di strappare il massimo a volte con il minimo sforzo (per sei volte vincerà per 1-0), ma il carattere emerge nell’avvio travolgente, in cui l’assenza di Maradona viene fronteggiata conquistando sette punti su otto nelle prime quattro partite, vissute senza Sua Maestà, con la «10» che Massimo Mauro riesce a portare splendidamente in giro mentre con la «9» si fa largo Gianfranco Zola. Per sedici partite, il Napoli se ne sta distante dalla «rissa», padrone di un campionato che però è equilibrato, con una concorrenza allargata da far paura e quando alla diciassettesima la Lazio lo travolge, la paura comincia a prender corpo e qualche fischio s’avverte nell’aria torbida e piena d’incertezza. Alla ventesima, come in un massacrante tappa pirenaica, il gruppo comincia a sgretolarsi (la Juventus è a sei punti, la Roma a sette), l’Inter si libera dalla Samp ma il Milan di Sacchi è ancora lì, deve anche recuperare con il Verona, e alla ventiquattresima, con l’aggancio rimette lo scudetto in gioco, trasformandolo in duello. Ci sono rivoli di stanchezza in entrambe ma a cinque giornate dalla fine, con il 2-1 della Samp, in quella che sembra una resa – nonostante ci sia solo un punto di svantaggio dal Milan – Bigon scova insospettabili motivi d’ottimismo: glieli fornisce una delle migliori prestazioni d’una squadra che non incanta, che talvolta esce dal proprio stadio avvertendo il brusio della gente, e che invece a Marassi intuisce, come dirà il proprio allenatore, d’essere risorta. «E lo raccontai sul pullman ai ragazzi delusi: avete giocato talmente bene che non possiamo non vincere lo scudetto». Fonte: CdS