Quando si perde una mamma è impossibile farsene una ragione: questi sono i giorni di tristi di Alemao, travolto dal dolore che soffoca e che opprime.
«E io ancora non so perché mia madre, Margherita, sia morta. Nessuno ci ha detto niente, non abbiamo neanche potuto salutarla come avremmo voluto, come si dovrebbe. È successo tre settimane fa ed è andata via in quattro giorni: la tosse è diventata polmonite, c’è stato un peggioramento e poi è spirata. L’abbiamo portata al Cimitero ed eravamo lì soltanto i familiari più stretti, i figli e i nipoti. Ci hanno consentito di stare dieci minuti insieme, senza ovviamente che si potesse aprire la bara, per vederla ancora una volta. L’ultima».
Alla tristezza e alla sofferenza s’aggiunge il terrore per quel che sarà, alle prospettive che la inducono al pessimismo per il suo Brasile.
«Io so che questa è la vita, che va così, ma la mamma stava bene, era piena di salute, e niente lasciava sospettare che all’improvviso potessero sorgere problemi irrimediabili. Ora vorrei almeno capire, vorrei qualcuno che mi dicesse cosa me l’abbia portata via, se il Covid-19 o soltanto il destino. Paura ne ho ed è anche tanta, perché qui l’isolamento sociale è relativo, a San Paolo c’è una mobilità pari al 60%. E c’è un Governo sul quale devo tacere, per educazione, altrimenti sarei costretto a sfogarmi con toni che non mi appartengono. Qui si fanno pochi tamponi, non mi fido di chi comanda, di quello che ci viene detto, di quello che si fa e che mi sembra pochissimo. Siamo un Paese enorme, con duecento milioni di abitanti, e il virus potrebbe ammazzare ancora e ripetutamente, perché non esistono forme di controllo del contagio».
Non abbiamo difese, Alemao, aspettando che si ritrovi ovunque la normalità…
«Resto in casa anche io, come gli italiani, esco poco e anzi niente, sono stato per quindici giorni senza muovermi. Abbiamo provveduto a fare una spesa abbondante, che potesse bastare per un periodo lungo. Ma stiamo inguaiati, siamo minati delle nostre certezze, sono diffidente sui numeri che vengono diffusi e temo per la mia gente, per me. Mi auguro che passi, che la scienza trovi un rimedio: vorrei svegliarmi e scoprire ch’è stato un terribile incubo, ma so che non è possibile, che serve l’intervento dei ricercatori, però anche quella dei Governatori, di chi ha in mano le sorti di uno Stato».
La leggerezza, diremmo la speranza, è nel suo impegno nella Comunità d’assistenza per tossicodipendenti che la impegna.
«Ci lavoro da ventisette anni, è una struttura sulla quale siamo ovviamente intervenuti, ha avuto bisogno di essere adeguata e ritengo che adesso sia all’avanguardia. Ma siamo sempre pronti e nuove modifiche per tenere alto il grado d’accoglienza nei confronti dei ragazzi che assistiamo. Ci sono sessanta posti e proviamo a recuperare chi ha avuto meno fortuna nella vita. Ho messo su questa mia vecchia casa, l’ho sistemata, l’ho ristrutturata e posso sentirmi felice almeno di questo. Mi dà energia, mi fa sentire utile».
Si tenta di costruire un futuro per chi sospetta di non averne.
«C’è un trattamento che dura sette mesi e in questi duecento giorni ognuno deve impegnarsi anche ad imparare o conoscere lavori che magari ha ignorato. Ci sono piantagioni che si possono coltivare, si può diventare panettieri, ci si avvicina ad un reinserimento che dev’essere graduale ma anche il più immediato possibile. Ho ovviamente il sostegno di medici, di psicologi, di specialisti che hanno competenza; non potrei farcela da solo neanche in amministrazione e infatti c’è chi mi dà una mano pure in questo settore organizzativo».
La sua scelta l’ha indotta a lasciarsi alle spalle il calcio, che è stato il suo mondo.
«Ho smesso anche di guardare le partite in tv, ogni tanto mi concedo quelle del Napoli. Ma ne sono uscito, perché qui l’ambiente è strano e complicato, tutto concentrato intorno ai soldi con un potere concentrato in poche mani. Il mio modo di vivere è diverso, ho un carattere forte e principi personali, posso fare a meno del calcio».
Ma non dei ricordi e neanche dei sentimenti.
«Quelli restano e per sempre. Sento spesso Andrea Silenzi, che per me è un fratello; parlo con Andrea Carnevale, con Rizzardi, con Venturin e anche a volte con Ciro Ferrara. Vedo, quando possiamo entrambi, Careca. Ripenso a Napoli, alla mia casa di via Petrarca, ai miei amici che mi chiamano tante volte e mi invitano. Era in programma un viaggetto in Italia per marzo, sarei dovuto essere a Gubbio e ovviamente sarei poi stato in quella città meravigliosa che mi ha accolto per quattro anni come un figlio».
Ed è stata la sua favola.
«La mia vita è racchiusa soprattutto dall’88 al ‘92. Mi è capitato, recentemente, di ritrovare immagini di quelle stagioni ed ho provato nostalgia, ovviamente. Abbiamo vinto, superando anche situazioni che definirei politiche insospettabili. E riuscire a trionfare a Napoli non è semplice. Ci siamo dovuti superare, perché trovavamo spesso ambienti ostili: è stata dura e mi pare di capire lo sia anche adesso. ma sogno che prima o poi quella gente possa essere felice e riassaporare la gioia d’un successo che per la loro passione dovrebbe rappresentare la normalità».
Banalmente, o ormai anche ritualmente, Alemao viene accostato alla monetina.
«E so che non è possibile evitare quel riferimento: è scritto nella Storia. Dove però c’è anche altro da andare a leggere: per esempio che quell’episodio, aritmeticamente, è ininfluente, perché seppure non ci avessero assegnato la vittoria a tavolino come avvenne, noi saremmo stati campioni d’Italia, con un punto di vantaggio sul Milan. Non avevamo bisogno di quella decisione, ma c’erano regole precise all’epoca. E io fui colpito».
Però le allusioni continuano: e sono passati trent’anni.
«Non posso farci niente e le dico di più, non me frega niente poi tanto di quello che dicono. Conosco me stesso e so com’è andata. E poi rileggo la classifica e cancello tutte le cattiverie che gratuitamente vengono sparse, cercando di cancellare la memoria: Napoli primo, pure se fosse stato confermato lo 0-0 di Bergamo. Lo scudetto è nostro, lo abbiamo conquistato e meritato e se mi fermo a pensare al gol di Bologna o a quello di Stoccarda o a quelli che feci o alle feste per quei successi, posso soltanto affermare di essere stato dentro una favola meravigliosa».
Dice Sacchi, in un libro uscito di recente in Italia, che lei, incontrandolo a Madrid, nella sede del Real, quasi si scusò per quel gesto…
«Questa è una colossale bugia ed ho il dovere di smentire Sacchi. Non avevo nulla da farmi perdonare, perché io non ho alterato la realtà: il dolore alla testa l’ho avvertito io, il taglio l’ho subito io. Immagino sia complesso dover riempire un libro, si devono inserire argomenti che facciano sensazioni, elementi che possano attirare l’attenzione: ma confesso che pensavo di essere al cospetto di una persona più intelligente. E mi rattrista che non sia così».
Trent’anni dopo è impossibile divagare su paragoni ma, volendo sbizzarrirsi per un attimo, il Napoli di quell’epoca oggi dove sarebbe? «In testa alla classifica, perché noi avevamo una grandissima squadra, talmente forte da diventare campione d’Italia battendo anche l’ostilità del pubblico avversario che trovavamo in molti stadi: gli striscioni contro, i cori offensivi. A volte era impossibile giocare. Ma noi eravamo un gruppo con dentro tanto talento e una personalità enorme. Basta andarsi a rileggere la formazione».
E adesso cosa farebbe Alemao?
«Fino a quando non esisteranno misure di sicurezza, starei fermo. Non so cosa potrà accadere, quando sarà possibile sentirsi nelle condizioni ideali per giocare. Non mi piacerebbe si andasse in campo senza gente e comunque cancellerei tutto, perché non ha senso, i campionati sono stati bloccati da tempo ed ormai la sosta è praticamente superiore a quella che va da una stagione all’altra. E manca dentro ognuno quella allegria che ci vorrebbe. Ho persino il sospetto che non sarà più la stessa cosa, almeno non subito. Ma so che un giorno bisognerà uscire e vivere, perché questa non è vita. Ora non lo è. E vorrei tanto che qualcuno mi dica perché la mia mamma non c’è più? Cosa ha avuto?».
Fonte: C dS