Ciccio Graziani oggi fa il nonno ma scova ancora talenti calcistici. Lo fa in Sudafrica e ciò lo diverte ancora. Ha dato tanto al calcio, ma ne ha ricevuto altrettanto, vive alle porte di Arezzo ed è un signore felice.
Graziani, come vive il lockdown? «Rispetto le regole e resto a casa. Mi sono inventato un po’ di mestieri, come tutti gli italiani. Faccio il giardiniere, l’imbianchino, ho passato l’aspirapolvere per pulire i tappeti. Faccio in modo di passare la giornata in modo sereno. Son curioso, mi informo su tutto ciò che sta accadendo».
La ripresa sarà difficile, il Covid-19 ha stravolto la nostra vita «Io sono ottimista per natura, però un po’ di preoccupazione ce l’ho. Alla lunga il vivere troppo sopra le righe, con troppo benessere lo stiamo pagando. La preoccupazione che ho è che non ci sarà più un mondo in movimento come prima. Chi poteva pensare che nel 2020 un virus potesse sconvolgere la nostra esistenza? Ma gli scienziati dicono che anche in futuro ci potrà ricapitare, sono preoccupato per i miei due figli e i miei due nipoti. Mia figlia abita a due chilometri da qui, ha un bambino di 4 anni che ha capito che c’è qualcosa che non va e quando vado a portargli la spesa resta sulla porta. Ora non mi abbraccia, lo vedo stranito. Mi dispiace che questo dannato virus abbia reso complicato il rapporto con i nipoti. Gianmaria ogni volta correva a prendere il pallone per giocare con me, è un mancino strepitoso, sulla spiaggia a tre anni la gente si fermava a guardarlo. Suo padre gli vorrebbe far fare tennis, gli ho detto di lasciare stare, perché questo diventa calciatore».
Il calcio manca, a lui come a tanta gente «Finalmente siamo in fondo al tunnel, cominciamo a vedere la luce, stiamo tornando verso la normalità. Il fatto che il calcio possa ripartire significa che la situazione sta migliorando. Si tornerà inizialmente a una normalità anomala, ma anche senza pubblico la ripresa è fondamentale. Bisogna finire questa stagione, con i verdetti sul campo e non nelle aule dei tribunali. Anche altri paesi stanno ripartendo. Dovrà essere la comunità scientifica a dire come e quando. Se ricominciamo gli altri è giusto che lo facciamo anche noi, con il parere dei medici».
Il mondo del calcio rischia una grave crisi «Le società sono in grandissima difficoltà, sanno che i proventi televisivi sono una speranza per affrontare il futuro. I calciatori sono stati bravi ad andare incontro alle esigenze dei club. Se non si dovesse tornare a giocare per molte società c’è il rischio default. L’obiettivo deve essere concludere la stagione e non far fallire i club. Dopo questo lockdown ci vuole un ridimensionamento in tanti settori, anche nel calcio, che stava vivendo sopra le righe».
Lo sport fa sempre parte della sua vita «Leggo tutti i giorni i quotidiani sportivi e non. Parto dal calcio per andare agli altri sport. Voglio ringraziare i giornalisti in generale che continuano ad aggiornarci. In tanti lavorano in condizioni di difficoltà. Tutti i giorni vado in edicola e compro i giornali. Voglio dare il mio contributo».
Cosa fa oggi nel calcio? «A marzo dovevamo andare in Sudafrica. Ci siamo bloccati per il Coronavirus. L’esperienza in Sudafrica è molto significativa, con Roma Cares facciamo tante cose per aiutare i bambini a farli divertire, gli portiamo tanti doni. Ci sono realtà difficili e con questi giovani dagli 8 ai 16 anni organizziamo una giornata di festa. Alla fine diventano tutti tifosi della Roma. Gli regaliamo il sorriso e a volte scopriamo talenti. Ho scommesso con Baldissoni che gli porterò un giovane promettente. Sono sicuro che succederà. Il ministro dello sport vorrebbe che andassimo più spesso. Sono stato tante volte anche negli Stati Uniti. Lì formiamo gli allenatori, gli portiamo le nostre metodologie. Anche lì ora è tutto fermo. Questa esperienza mi piace, ho la possibilità di portare in giro per il mondo l’immagine della Roma, mi piace lavorare con i giovani, che sono felici di entrare in contatto con un campione del mondo».
La Roma le è rimasta nel cuore «Sono rimasto legato a tre società in modo meraviglioso. Torino, Fiorentina e Roma mi hanno dato tanto. Con la Roma sento di avere un debito di riconoscenza, perché ho più ricevuto che dato e mi dispiace di esserci arrivato solo a 30 anni. Mi sarebbe piaciuto cominciare e finire lì. Quei tre anni sono stati fantastici, per i rapporti con la città, i tifosi. E poi a volte finito l’allenamento chiamavo mia madre e mi facevo preparare un bel piatto di fettuccine a Subiaco. Quando torno a Roma la gente mi manifesta ancora il suo calore: «Peccato per quel rigore, ti abbiamo voluto bene lo stesso».
Aveva cominciato nel Bettini Quadraro, ma la chiamata della Roma non arrivò «In realtà la Roma mi aveva preso, poi arrivò Herrera, i ragazzi che venivano da fuori li lasciavano a casa. Io ero di Subiaco ed ero fuori. Mi allenai una volta con loro: c’era Spinosi. Ma poco dopo mi comunicarono che non avrei continuato. Così andai all’Arezzo».
Alla Roma trovò Liedholm «Con lui ho avuto un rapporto conflittuale e di grande affetto. Venivo da un allenatori come Radice e De Sisti e il rapporto era diretto, c’era molto dialogo. Con Liedholm quando arrivai mi disse: “Sono molte felice di poterti allenare mi sei sempre piaciuto, sei un grande calciatore”. Io cercavo il dialogo, il Barone evitava anche se stesso. Mangiava da solo, parlava poco, parlavano soprattutto Tessari e Colucci. Lui era distaccato e quando glielo facevo notare diceva che era di un’altra generazione. All’inizio facevo fatica, poi mi sono adattato. I compagni mi dicevano: “Il mister è così…”. Ma quando ti lasciava fuori senza dire niente era difficile da accettare. Da febbraio in poi le cose sono andate meglio, si era ammorbidito, alla fine dell’anno mi è dispiaciuto che se ne sia andato. Con lui ero migliorato tantissimo dal punto di vista tecnico. Il mercoledì pomeriggio facevamo i palleggi, la guida della palla. Io dicevo: “Ma che siamo tornati al Nagc?”. Lui rispondeva con il suo stile: “Caro Graziani, dai ascolto, vedrai che migliori”. Così facevo 50 palleggi con il sinistro e qualche volta cadeva il pallone. Ci allenavamo nei tiri io, Pruzzo e Conti, lui passava il pallone e ci diceva dove metterlo. Eravamo migliorati tutti del 50 per cento dal punto di vista tecnico».
Quando andò via era finito un ciclo «Ho un grande rammarico, perché quella squadra doveva vincere tre scudetti, credo di aver giocato nella squadra più forte in assoluto, con potenzialità incredibili e forse non ce ne eravamo accorti neanche noi. Forse è stato quello l’errore nostro, non superficialità. Non eravamo coscienti che fossimo così forti. C’erano campioni straordinari. Nela era una belva su quella fascia, ne cito uno solo. Avremmo dovuto raggiungere traguardi maggiori. Ho vinto due coppe Italia ed è come se non fosse nulla. Che rabbia».
Non ha citato Di Bartolomei «Di Agostino ho un ricordo bello. L’ho sempre chiamato il capitano silenzioso, era come il Barone. Loro si capivano con gli sguardi, anche senza parlare. Agostino era un po’ chiuso, introverso. Però a volte lo sentivo parlare con la segreteria di Andreotti, con il sindaco di Roma. Alzava il telefono e parlava con chiunque. A volte dava l’impressione di essere scostante, si isolava dagli altri. Poi c’erano momenti in cui scherzava e faceva battute. Il rapporto era buono, poi con qualcuno vai più d’accordo, con altri meno. Una volta gli dissi: “Guarda che vederti sorridere è un piacere”. E lui: “Non mi rompete…”. Frequentava Guttuso e aveva amicizie di alto livello. Era appassionato di arte, anche in questo andava d’accordo con Liedholm. Era molto amico di un cardinale importante in Vaticano, mi disse: “Se hai bisogno dimmelo, se devi andare a prendere un medicinale o per qualsiasi altro”. Era un ragazzo, eppure alla sua età parlava con tutti. Aveva un bel carisma. Quando è successa la disgrazia sono rimasto addolorato. Ci siamo fatti tante domande: cercava lavoro e non glielo hanno dato; aveva problemi finanziari, ma ci hanno assicurato di no. Io sono un po’ arrabbiato: se avesse chiesto a chiunque di noi aiuto ci saremmo adoperati, magari per farlo rientrare alla Roma. Anche se non conoscevo Sensi mi sarei permesso di chiedere un incontro per dirgli di riprenderlo. Tutti di quella squadra lo avrebbero fatto. Per questo mi porto un piccolo peso, perché forse non abbiamo capito che potesse arrivare un tragedia come quella. Quando arriverò in Paradiso, perché io faccio in modo di meritarmelo, faccio due cose: prima gli dò un calcio nel sedere e poi lo abbraccio. Avrebbe dovuto avvertirci del disagio che stava vivendo».
Di Bartolomei aveva spesso la pistola «A volte la portava anche a Trigoria, ma la teneva nella macchina. Ogni tanto qualcuno ci scherzava: “Ce l’hai oggi? Faccela vedere”. Non so per quale motivo avesse la pistola, non mi risulta fosse minacciato. Forse gli dava un senso di sicurezza, quello era il periodo dei sequestri. Non perché volesse usarla. Aveva un regolare porto d’armi e a Trigoria la teneva scarica. Ogni tanto andava al Poligono a sparare».
Agostino fu uno dei protagonisti in quella maledetta notte dei rigori contro il Liverpool «I cinque rigoristi erano già stati ipotizzati, ma non scritti. Poi le sostituzioni di Cerezo e di Pruzzo ci misero in difficoltà. Per scaramanzia il Barone quando ci allenavamo prima della finale non ci faceva calciare i rigori. Diceva che portava male. Ma noi di nascosto qualche rigorino lo tiravamo alla fine dell’allenamento, anche perché Tancredi ci chiedeva di farlo. Liedholm era convinto che non saremmo mai andati ai rigori. Quando accadde è cominciata la conta. Pruzzo era stato sostituito, ma faceva da punto di riferimento. Roberto mi disse: “Ciccio, devi tirare”. Poi si propose Strukelj che era entrato al posto di Cerezo, ma Pruzzo disse no. Poi fu chiamato Chierico. Falcao doveva essere dentro. Paulo disse: “Io rientro dopo tre mesi, sono stanco morto, se c’è qualcuno al posto mio lo preferisco”. Nacque una piccola discussione. Arrivò Righetti e disse: “Lo tiro io”. Alla fine eravamo in cinque, Chierico era l’ultimo. Quando si cominciò Agostino mi si avvicinò: “Ho le gambe pesanti, vai tu per primo”. Io dissi: “Va bene prima lo tiro e meglio è”. Presi il pallone e andai verso il dischetto. Mi stavo concentrando, quando arrivò Agostino: “Fermo, il Barone vuole che sia io il primo”. Quindi gli lasciai il pallone. Quando tornò in mezzo al campo, dopo aver fatto gol, mi incoraggiò: “Fai come me, tira una botta in mezzo, tanto lo scemo (Grobbelaar, n.d.r.) si muove sempre. Non piazzarlo”. Mi concentrai per calciare forte, la palla ha scheggiato la traversa, andai male con il corpo sul pallone. Un errore che mi porto dentro con grande rammarico, se avessimo vinto quella coppa saremmo nella storia della Roma in eterno, ma quello che mi pesa di più è aver infranto il sogno di tanta gente».
Se si tornerà a giocare la Roma ripartirà dal sesto posto «Troppi alti e bassi. Credo che Fonseca sia un allenatore che abbia idee giuste, innovativo, mette tanto di suo. Ha avuto tanti infortuni, si è dovuto inventare Mancini centrocampista. Ma è mancata continuità, troppe sconfitte contro avversari modesti. La Roma come qualità meriterebbe il quarto posto, anche se l’Atalanta è un’orchestra perfetta. Dzeko può e deve fare molto di più. Vedere che uno con le sue qualità ha fatto meno gol di Joao Pedro o di Caputo mi fa incazzare. Lo vorrei vedere più grintoso, più cattivo. Se avesse la rabbia mia o di Pruzzo farebbe 30 gol a stagione». Fonte:
CdS