Zdenek Zeman: “Insigne? L’ultima vera bandiera del nostro calcio. Io azzererei l’attuale stagione”

Lunga intervista del Corriere dello Sport al tecnico boemo

L’unico rifugio, ora, è la memoria: e starsene lì adagiato tra i resti d’una gioventù perduta. Quando Zdenek Zeman si lascia Praga alle spalle ha ventuno anni: è un’età in cui si sogna e a nessuno andrebbe vietato di farlo; mentre invece, sta cominciando una nuova vita, è insolita e diversa, e porterà in sé il rimpianto di aver visto sfilare via i giorni più belli, divenuti improvvisamente terribili, per non sentire il rumore assordante dei carrarmati, per non bruciare la spensieratezza, per non precipitare in un dolore sordo e devastante. Per farsi ascoltare non è mai stato necessario urlare e mentre Zdenek Zeman parla, i un’intervista rilasciata al Corriere dello Sport, come un dolcissimo cantastorie, si scivola malinconicamente tra le pagine di un racconto che sa di testamento personale, la sintesi di un’autobiografia autentica, sincera e priva di luoghi comuni, di banalizzazioni che non gli sono mai appartenute ma densa di sé, d’un vocabolario romantico e persino struggente che emerge dalle cicatrici dell’anima e si scorge in quello specchio che ora riflette immagini vive della sua Roma senza ancora un orizzonte. «Mi manca la gente». 

La quarantena di Zeman, quella di oggi, è un frammento rispetto quell’isolamento scelto nel ‘68, a ventun anni, quando lasciò la sua Cecoslovacchia… «Ero in vacanza in Sicilia da mio zio Cestmir Vycpalek, dovevo rientrare il 22 agosto e nella notte tra il 20 e il 21 ci fu l’irruzione dei paesi sovietici con i carrarmati. Restai ancora un po’ qui, poi tornai perché a casa mi reclamavano, finii la scuola e a novembre ero di nuovo in Italia. Definitivamente».

Casa sua è stata qui, e ancora lo è. Per rientrare in Patria e rivedere suo padre Karel dovette aspettare il 1991. «Partimmo con la mia famiglia da Pisa con un aereo privato, di proprietà di Casillo. Non avevo mai più visto mio padre e soltanto per due volte, in quello spazio enorme, mia madre era riuscita e venire a Mondello, dove era rimasta per quindici giorni. Fu come riappropriarsi del passato, tentando di riempire un vuoto che però rimane, perché quei vent’anni rappresentano un’enormità».


Karel Zeman, suo padre, era otorino e primario a Praga.
«Andavo con lui in Ospedale e mi avrebbe voluto medico, mentre io avevo in testa soltanto lo sport, tutti, anche il giavellotto che mi è servito per allenarmi. Abitavamo sulla Moldava, al quarto piano di un palazzo che davanti aveva anche un campo: e io o stavo lì, a giocare, o rimanevo alla finestra, a guardare gli altri che lo facevano, in attesa di poter scendere poi tra loro. Ci ha pensato mia sorella ad accontentare papà e a ereditarne la passione: laurea in medicina, stessa specializzazione».

Un altro medico un famiglia poteva dunque bastare.
«Avevo mamma che mi difendeva, anche quando, meritatamente, perché sciocchezze ne ho fatte pure io, mio padre mi rimproverava. Il babbo stava spesso fuori, ad operare, lo vedevo poco: era serio, non severo, e però non certo permissivo – e pure troppo – come lo sono stato io con Karel e Andrea, i miei figli. Per fortuna che ci ha pensato Chiara».

Questa condizione di reclusi consente di pensare. «L’ho fatto tanto, anche troppo, nei primi tempi, quando mi staccai dalla Cecoslovacchia. Poi ho lasciato che gli impegni mi distraessero. E mi sono rifugiato negli studi o in ciò che la vita mi proponeva e in quello che inseguivo».

Praga è stata lontanissima. «Ma ho sempre avuto dinnanzi agli occhi le immagini di quel tempo: io che osservo i ragazzi e poi li raggiungo. Ma anche io che seguo mio padre in Ospedale, lo ascolto, gli sto a fianco, vedo cosa fa e come lo fa. Praga è bella, lo era allora e non il suo fascino non è mai mutato. Ci vado spesso, anche se adesso ci manco da un po’. Però mia sorella e mio nipote Zdenek sono stati qua recentemente, proprio mentre stava scoppiando il virus in Europa. Hanno fatto in tempo a rientrare, vivono una situazione simile alla nostra, per fortuna con numeri assai più contenuti, meno morti. E comunque una precarietà che è di chiunque».

Ventun anni senza i genitori: viene da chiedersi, cosa saranno mai questi due mesi fuori dal mondo, se non è dettaglio? «Dicono che stiamo vivendo come in guerra, ma io non sono in grado di confermare o di smentire, perché io la guerra non l’ho vissuta e quindi non lo so. Però è vero che è brutto pure ora, perché sembra tutto buio, non sai quando finirà, cosa saremo, cosa troveremo, cosa potranno fare i giovani. Da due mesi in casa, a cercare risposte che non arrivano, ad aspettare i comunicati, ad aspettare che faccia sera e poi di nuovo giorno e ti dicano altro. A guardare la tv, magari un film, però avendo la testa altrove».

È una fase che osserva con paura… «Più che altro, con naturale preoccupazione. C’è un futuro che non si può immaginare, soprattutto per i ragazzi. Ma ho il sospetto che quando si riaprirà, questa situazione già drammatica, con così tanti morti, possa addirittura peggiorare. Io non so se riusciremo ad essere rigorosi e dunque ad evitare che il contagio riemerga, letalmente. Ed è lecito temere che possa toccare a te, a chi ti sta vicino, a chi vuoi bene».

Ha modo di godersi i suoi. «Chiara non mi ha mai visto per così tanto tempo dentro casa e Andrea sta di là, al computer, a sbrigare il suo lavoro. Karel è rimasto bloccato in Sicilia, sta a Palermo, magari spera che si possa andare a Mondello».

Il Paese è fermo e l’economia anche. «Vediamo cosa succederà, augurandoci che non accada quel che mi inquieta. Nessuno sa dare risposte, non si possono fare previsioni e non sarò certo io a farne. Ne abbiamo lette e sentite troppe ma mi sembra che non sia semplice fronteggiare il virus».

Il calcio si interroga. «Azzererei la stagione: si chiude e si riparte poi quando sarà possibile, magari a settembre. Ma i campionati sono falsati, fermi come sono da due mesi. Poi so bene che esistono interessi economici e che dunque se si riprenderà sarà esclusivamente per ragioni finanziare e per tentare di frenare quella montagna di debiti che il movimento stesso ha prodotto».

Nell’ultima Nazionale di Mancini, c’erano ancora cinque “suoi” ragazzi: Florenzi, Immobile, Insigne, Romagnoli e Verratti. «Appartengono a cicli e a momenti diversi. E ci sono stati anche periodi in cui in giro per il mondo ce n’erano una decina, forse anche di più: penso a quando ero alla Lazio e alla Roma. Ma anche nelle mie stagioni con il Foggia e con il Lecce c’è stato chi è riuscito a raggiungere la maglia azzurra. E poi gli stranieri».

Anche Zeman ha avuto un idolo… «Ed è stato Kovacs. Poi sono cresciuto e con l’età si smette di averne. Semmai si apprezzano, diversamente, nuove figure. I miti appartengono alla gioventù».

Poi le è piaciuto, e anche tanto, Hiddink. «È sempre stato bravo o almeno io l’ho considerato tale. Il mio gradimento non nasce dal curriculum, né dalle bacheche: e non si resta affascinato dalla quantità dei successi ma da ciò che si lascia, da quello che si costruisce. Guardiola è un grande, e ci mancherebbe, ma penso che il suo Barcellona sia erede di quello di Cruijff».

La Grande Bellezza degli anni 90 è stato il suo calcio. «Lascio che siano gli altri a dirlo ma ci sono stati momenti in cui ci siamo divertiti».

In tv, che ripropongono il calcio con i protagonisti del passato, Zeman ricorre spesso. «Forse perché mi vogliono bene».

Lei ne vuole tanto a Insigne, a Totti (e non solo a loro due). «E Lorenzo per me è l’ultima bandiera. Il più forte calciatore italiano, uno dei pochi in grado di fare la differenza. Un napoletano che si sente tale e che spero resti nella sua città, come ha fatto Francesco. Solo che Totti, a Roma, non è mai stato contestato».

Starebbero per rivoluzionare i calendari. «Non mi piace l’idea, per me si comincia a settembre e si finisce a giugno. E comunque so bene che c’è chi la vuole cotta e chi cruda ed è difficile mettere assieme tante teste. Sto a guardare, spero che sia possibile tornare alla normalità e dunque al calcio che piace a me. E se ce ne sarà ancora la possibilità, se me la daranno, di fare ciò che mi diverte: allenare, a modo mio».

La Redazione

 

 

 

 

 

 

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