«Riguardati, Giacomo, perché non saprei dove metterti: così mi disse quel mio amico». Giacomo Agostini, 77 anni, dice queste parole con un tono sereno dalla casa di Bergamo, dopo aver chiuso un’altra giornata dedicata alle vecchie foto. «Ne avrò buttate diecimila, sono state fatte cinquant’anni fa e non si vedeva neanche la moto: che me ne facevo?». A dicembre, in questa casa, il re delle due ruote – 15 volte campione del mondo, l’uomo di cui il rivale Kenny Roberts nel 74, dopo essere stato sconfitto a Daytona, disse: «Non posso credere che Agostini sia un essere umano» – ha aperto un museo, dove c’è tutta la storia della sua vita. «Con 364 trofei, migliaia di foto, tute, caschi e sei moto». Il passato di gloria si incrocia con il presente di sofferenza che vive la sua gente. «Io sono venuto da queste parti a 13 anni».
La leggenda delle due ruote nasce a Brescia e poi? «Ci trasferimmo sul Lago d’Iseo, a Lovere, provincia di Bergamo, e poi venimmo in città. Vivo quasi in collina, a trecento metri dallo stadio. Ma che bella è l’Atalanta, il nostro orgoglio: quando non sono in giro per il mondo vado a vederla, è una esemplare storia di sport».
L’Atalanta era riuscita a realizzare l’impresa della qualificazione ai quarti di Champions League prima che la pandemia e le migliaia di morti sconvolgessero questa terra. «Ci stiamo lentamente riprendendo, prima è stata durissima. Nella notte sentivo le sirene delle ambulanze, drammatico. Cento e più morti al giorno. Io sono del 42, non ho vissuto la guerra e non so se quella affrontata dai nostri genitori sia stata una tragedia simile. Tutto questo è terribile. Un giorno sono passato davanti al cimitero di Bergamo e ho visto le bare allineate all’ingresso, prima che i soldati le caricassero sui camion. Senza che fosse possibile una preghiera dei familiari, l’ultimo saluto. Un dolore che si aggiungeva al dolore. Tu non lo vedi, questo avversario tremendo che è il virus, ma lui è stato così forte da aver messo il mondo in ginocchio».
Lei che non aveva paura di correre ne ha provata in questi in questi giorni? «Paura? Angoscia, ecco. Un’angoscia che aumentava giorno dopo giorno. Feci una telefonata a Luca e lui mi disse quelle parole: riguardati, Giacomo, perché non saprei dove metterti».
Chi è Luca? «Luca Lorini, il primario di rianimazione presso l’ospedale di Bergamo. Siamo grandi amici, lui corre in moto. Ecco, le sue parole mi fecero capire che eravamo fuori giri. Qui toccavamo con mano il dramma mentre lontano se ne dicevano tante. Le storie più assurde».
Cosa l’ha infastidita di tanti racconti con cui conviviamo da mesi? «Le ipotesi da fantascienza, come quella sul virus che sarebbe stato diffuso per colpire una parte della popolazione, chissà poi quale. Ci sono morti dovunque: Cina, Stati Uniti, Europa… E ne hanno dette tante anche sulle cure e sui mezzi utilizzati per provare a frenare questa pandemia. Ma chi avrebbe mai potuto produrre sessanta milioni di mascherine o milioni di respiratori? Chi poteva immaginare tutto questo?».
Ci chiediamo come saremo dopo, quando i contagi e i decessi si saranno attenuati e riprenderemo la vita di sempre. «Io penso al presente, anche a proposito delle sollecitazioni sulla ripresa dello sport. Ci manca, certo: vorrei riprovare l’emozione di assistere a un gran premio, è la mia vita, e so qual è il contraccolpo economico senza gare per i piloti, i team, il movimento. Ma prima c’è la salute, poi il lavoro, infine tutto il resto. Mi irrita ascoltare certe domande nelle conferenze stampa alla Protezione civile».
Quali? «C’è chi chiede: potremo andare in vacanza? La vacanza? Ma qui si muore, qui c’è chi non ha da mangiare. La vacanza…».
E allora, Agostini, secondo lei come saremo? «Per tornare alla normalità bisognerà trovare un vaccino, poi si vedrà. E non mi faccio troppe illusioni. Non ci sarà più amore nel nostro mondo, non credo proprio. Superate le paure, riemergeranno gli egoismi. Non mi sorprendo se vedo qualcuno, dopo un lutto, a ballare e bere in discoteca. Così è la vita, penso».
Nei giorni di una gloria dello sport mondiale cosa c’è oggi? «C’è molta cautela, perché non ho più 32 anni come quel giorno a Daytona. C’è il tempo che trascorro a rimettere in ordine le mie cose. Non pensavo di essere arrivato a 364 trofei, tra medaglie, coppe, targhe. È tutto mio qui, dalle moto alle tute. Avevo ammassato ogni cosa in una stanza, poi un giorno mi sono detto: perché non riordinare tutto e creare uno spazio dove raccontare la mia storia e condividerla? Ora mi passano davanti i momenti belli».
Come Daytona, la vittoria su Roberts? «Ma il giorno più esaltante è stato il primo mondiale, vinto nel 66 davanti alla mia gente, ai 130mila tifosi spettatori presenti a Monza. Ricordo ancora quanto fossi frastornato a fine gara: mi resi conto di essere diventato campione del mondo il giorno dopo, leggendo i titoli dei giornali. Certo, poi Daytona, con quelle parole di Roberts…».
Lei era un campione umano, però. E quelli di oggi? «Li seguo, li apprezzo. È cambiato il mondo del motociclismo, adesso spero che si riparta quando ci saranno tutte le garanzie possibili, senza il rischio di contagi. Si può aspettare».
Agostini ha avuto milioni di tifosi e uno molto speciale a Napoli: Antonio Mellino aveva 18 anni quando cominciò con la sua moto a correre per la città sfidando le auto della polizia e lo soprannominarono Agostino o pazzo, pensando a lei. «L’ho conosciuto a Roma, mi aveva incuriosito la storia di questo motociclista che seminava le volanti: correva tanto, riusciva ad entrare nei vicoli lasciando fuori i poliziotti. La gente lo osservava e gli diceva: ma chi credi di essere, Agostini?».
Fonte: Il Mattino