In queste settimane difficili il cuore di Manolo Gabbiadini batte forte soprattutto per la sua Bergamo, ferita da quel coronavirus con il quale anche lui ha dovuto fare i conti. “Gabbia” è stato il secondo calciatore italiano che ha contratto il Covid-19 e che ha convissuto con la forzata inattività e soprattutto con la paura di infettare la moglie e i figli. Manolo è un ragazzo sensibile, con il quale ora più che mai, si parla soprattutto di argomenti extracalcistici. Ha troppo rispetto per coloro che soffrono, per i medici e gli infermieri che combattono e per i Paesi messi in ginocchio dal virus per pensare a un pallone che rotola, a uno scudetto da assegnare o a una classifica da definire. Come tutti i suoi colleghi ha dentro la voglia di giocare e segnare ancora, ma il pudore lo frena perché «il calcio non è più importante delle tragedie che tante famiglie stanno vivendo».
Gabbiadini, prima di tutto come sta adesso? «Bene, ora è tutto a posto. La prima settimana ho avuto un giorno la febbre, altri 5-6 una brutta tosse, in più non sentivo gli odori e avevo un po’ di mal di schiena. Nel complesso però è stato tutto sopportabile. Neppure la seconda settimana ero al 100%, ma poi si è sistemato tutto».
Qual è stata la sua reazione quando il 12 marzo le hanno detto che era positivo al Covid-19? «Prima della telefonata del dottor Baldari (il medico sociale della Samp, ndr) ero sereno e credevo di essere negativo. Mi ricordo che quando mi disse: “Purtroppo sei risultato positivo” ci sono rimasto male: ero in casa con mia moglie e i due bambini piccoli e non volevo crederci. Il primo pensiero, più che per le mie condizioni di salute, è stato per loro e un po’ di ansia l’ho avuta. Passato un giorno abbiamo metabolizzato la notizia e abbiamo cercato di conviverci».
Temeva di trasmetterlo a loro? «Esatto, ma per fortuna non è successo. Mia moglie magari lo aveva preso prima di me, a gennaio, quando è stata 20 giorni con la tosse e 4-5 con la febbre. Altrimenti dormendo insieme sarebbe stato difficile evitare il contagio. Dopo che mi hanno detto della mia positività, la prima settimana ho dormito da solo, isolato in una parte della casa. Mai e poi mai avrei voluto trasmettere il virus a Martina e ai bambini. All’inizio è stata dura vederli poco e non poterli abbracciare. Dalla seconda settimana con i guanti e la mascherina qualche volta ho iniziato a prenderli in braccio: non resistevo più…».
Chi le è stato più vicino della Sampdoria? «Tutti. Abbiamo un gruppo molto unito e tanti mi hanno scritto sia nella chat della squadra sia in privato. Anche Ranieri mi ha telefonato spesso per informarsi».
Quanti messaggi le sono arrivati dopo che è stata ufficializzata la sua positività? «Circa 400, solo su Whatsapp, tra familiari, ex compagni, ex allenatori, amici… Sono stato sorpreso da tutto questo affetto nei miei confronti e mi ha fatto piacere».
Cosa ha provato sapendo che la Sampdoria è stata la squadra di A più colpita dal Covid-19? «E’ inevitabile pensare dove potresti aver preso il virus, ma è impossibile trovare una risposta. Mi dispiace che sia successo proprio a noi, ma l’importante è che stiamo tutti bene. Ci siamo preoccupati tanto per il dottore che per qualche giorno non è stato bene, ma adesso si è rimesso».
Come sta trascorrendo il periodo della “quarantena” in casa? «Mi sto guardando su Netflix la quarta stagione della “Casa di carta” e “Formula 1: Drive to Survive”. Sempre dopo aver messo a letto i bambini perché il resto della giornata tra allenamento la mattina, qualche tiro a canestro, nascondino, puzzle e barbecue in giardino vola via velocemente».
Quando ha ripreso ad allenarsi? «Una settimana dopo la positività avevo provato a fare qualcosa, ma sono stato costretto a fermarmi perché non ero al top e così mi sono limitato a qualche allungamento per la schiena visto che mi ero bloccato. Dopo 15 giorni ho ripreso con la cyclette e gli elastici seguendo i programmi che lo staff tecnico ci manda ogni sera su Whatsapp».
Come le è venuta l’idea di usare i figli come pesi durante i suoi esercizi? Sa che lo fa anche Cristiano Ronaldo. «Io però l’ho messa in pratica due settimane prima e quindi mi ha copiato lui… (ride, ndr). Schezi a parte, cercavo di fare il papà e di interagire con i bimbi. Chiusi in casa per loro non è facile. Li ho fatti ridere un po’».
Cosa ha provato quando le hanno comunicato che il secondo tampone era negativo?
«Già dopo la seconda settimana mi sentivo bene, ma quando è arrivata la negatività ho tirato un sollievo e mi sono sentito ancora più tranquillo. Ora aspetto che tutto finisca ed esco solo per buttare la spazzatura: in questo momento per aiutare i medici l’unica cosa da fare è stare in casa ed evitare i rischi di contagio».
Quale sarà la prima cosa che farà quando finirà il lockdown? «Una passeggiata qui a Nervi, magari per mangiare un gelato o qualcosa di buono in riva al mare».
Quanta voglia ha adesso di tornare ad allenarsi sul campo con i compagni o a giocare una partita? «Mi mancano molto entrambe le cose e mi sento come un leone in gabbia. Mi sto abituando e mi piace stare in casa con la mia famiglia, ma da sempre giro e sono in movimento per il mio lavoro. Quindi…».
Crede che sia possibile finire la stagione? Ci spera? «Non spetta a me dirlo. L’obiettivo di tutti è ripartire, non solo nel calcio che in questo momento è la cosa meno importante, ma nella vita in generale. Bisogna ripartire, però nella maniera giusta ovvero senza poi ricascare nel problema. Se succedesse sarebbe un guaio per gli ospedali. Ecco perché dico che bisogna usare la testa e prendere ogni decisione con grande attenzione».
Il prossimo gol che segnerà in Serie A a chi lo dedicherà? «A tutte le persone che ci stanno mettendo faccia andando a lavorare… in prima linea. Mi riferisco ai medici, agli infermieri, ma anche ai volontari che portano la spesa a casa di coloro che non possono uscire. Mi riferisco per esempio agli anziani e ai malati. Bisogna complimentarsi con certe persone, ringraziarle non solo ora, ma per sempre. Anche quando sarà finito tutto. E’ necessario ricordarsi a lungo di quello che hanno fatto».
La sua lettera aperta per Bergamo nelle scorse settimane ha colpito ed emozionato tutti. Come le è venuto in mente di scriverla? «Dopo aver visto il video dei camion dell’esercito che portavano via le bare di tante persone: sono state immagini terrificanti che mi fanno venire i brividi ancora adesso. In provincia di Bergamo vivono i miei familiari e mi raccontavano le scene: per giorni quando aprivano le finestre sentivano solo le sirene delle ambulanze che passavano. E’ stata una cosa toccante veder soffrire così la mia città d’origine».
Era ed è preoccupato per i suoi genitori? «Inevitabile visto che sono in Lombardia, nella regione con più contagiati. Ci sentiamo spesso e sento quello che fanno: mio padre ogni tanto cerca… di evadere da casa (ride, ndr) e devo tenerlo sotto controllo. Lì ho anche una sorella con i due figli, mentre l’altra vive in Veneto».
La sua lettera l’ha chiusa con la frase “Mola mia, Bérghem”, il grido di appartenenza di tanti bergamaschi in queste settimane di difficoltà. «A Bologna ho la mia casa e quando non ho impegni calcistici vivo lì; a Genova sto benissimo e Nervi mi piace tanto, ma ho anche Bergamo nel cuore e quel “non mollare Bergamo” in dialetto era un modo per far capire che non ho dimenticato dove sono cresciuto. Noi bergamaschi siamo persone chiuse, ma vogliamo bene alla nostra città che sta ancora soffrendo. La situazione è migliorata, ma poco. Non siamo ancora fuori».
Tra le tante persone che sono morte a Bergamo conosceva qualcuno? «Sì, perché purtroppo ci sono stati morti anche nel mio paese, Bolgare. Io sono nato a Calcinate, ma sono cresciuto in questo Comune di 5.000 abitanti dove ci conosciamo tutti. Alcuni anziani, che magari avevano altri problemi di salute, sono stati colpiti dal virus e adesso non ci sono più. I miei mi dicevano che c’erano 3-4 morti al giorno. Una mazzata… Si è ammalato anche una persona che vive nel mio palazzo a Bologna, un uomo super in forma, anche lui di origini bergamasche. Se l’è vista brutta, ma ce la farà. E poi Charlie Austin, che è stato mio compagno di squadra al Southampton: ha avuto quasi 40 di febbre e si è spaventato parecchio. Quando ho sentito questi due casi mi sono impaurito: se il virus colpisce anche persone in salute come loro…».
Bergamo e l’Italia sapranno rialzarsi? «Assolutamente sì. Anche se ci vorrà del tempo, ripartiremo. Non bisogna aver fretta o fare le cose senza logica: se dovremo stare altri due mesi in casa, non ci muoveremo da qua. L’importante è non rischiare niente perché la salute viene prima di tutto».
Si susseguono i tributi a medici e infermieri che hanno pagato un prezzo alto in termini di decessi per curare i malati. Il calcio come può ringraziarli? «Seguendo le regole. Se iniziamo a uscire e a fare le cose che non si possono fare, è un problema. Purtroppo non ne siamo ancora fuori: tocca ai medici e agli scienziati dirci quando questo momento terribile sarà alle spalle».
Come cambierà la nostra vita dopo il coronavirus? «All’inizio sarà dura perché non si potrà uscire liberamente come prima, ma quando ci sarà il vaccino le cose torneranno man mano a essere normali».
Il calcio saprà superare questa crisi? «Di certo, ma non bisogna aver fretta di tornare subito a fare tutto come prima. Ci vogliono calma e lucidità perché la battaglia contro il virus non è ancora finita. In questo momento ci sono cose più importanti rispetto al calcio e ripartiremo quando ci diranno che non ci sono rischi per la salute. Nostra e di chi ci sta intorno. Rispettare le cose è fondamentale quando c’è gente che rischia la vita. Noi calciatori siamo felici di tornare a giocare, ma è giusto farlo in totale sicurezza, quanto tutti stanno bene».
Se il campionato ripartirà, come sarà il finale della Sampdoria? «Penso e spero bello».
Chi vincerà lo scudetto? «Troppo difficile da dire adesso perché le variabili sono molte. Riprendere dopo due mesi di stop e magari con soli 20 giorni di preparazione nelle gambe vuol dire che il campionato sarà falsato, comunque finisca. Ranieri ha detto una cosa intelligente quando ha spiegato che i calciatori sono come Ferrari che hanno bisogno della giusta preparazione per carburare. Il finale di stagione sarà un’incognita anche per noi che andremo in campo».
Cosa sogna per il suo futuro in blucerchiato? «Di continuare a fare bene e di dare il mio contributo a questa squadra che mi ha ricomprato. Credo nella società e nella squadra: quando il coronavirus sarà alle spalle, ho voglia di togliermi delle soddisfazioni con questa maglia addosso».
La Redazione