Il mondo del calcio cercherà di ritornare in auge, appena avrà l’autorizzazione da prte dei medici e dal Governo di poter tornare all’attività agonistica. Il Mattino ha intervistato l’ex libero del Napoli degli anni ’80 Ruud Krol sul momento del calcio e sulla compagine azzurra.
Da dove partiamo, Ruud? «Dai miei settant’anni, festeggiati a Napoli, con tanto di celebrazione ufficiale. O dal mio prossimo viaggio, quello che avevo prenotato due mesi fa per essere di nuovo in Italia, perché volevo girare ancora questo Paese meraviglioso e incontrare Luciano Castellini. Avevamo già stabilito l’appuntamento. E la prima cosa che farò, non appena sarà tutto normale, sarà tornare in Italia».
Come dicono in tanti, ne usciremo migliori? «E’ una speranza ma non ne ho certezza. Spero che il virus cambi chi ne ha bisogno, non chi invece ha dentro di sé già sentimenti autentici e radicati. Però qualche dubbio mi resta».
Passeranno i giorni, pochi o tanti, e poi ognuno tornerà ad essere ciò ch’è stato.
«Immagino che possa andare più o meno così. La natura dell’uomo è difficile che subisca mutazioni nette, anche dinnanzi ad una tragedia del genere, con morti che un nemico invisibile lascia in ogni angolo del mondo. E’ una tristezza vedere le strade vuote, le attività ferme, la gente comprensibilmente piena di paura».
Lei da una quindicina d’anni vive a Marbella. «Tutto chiuso anche qui, però ieri qualcosa ha ricominciato a funzionare. Si esce per andare al supermercato, poi basta. E non c’è vita intorno, neanche nella tv. E quindi è tutto complicato, restano i telegiornali per sapere cosa sta accadendo intorno a noi o dove sono i nostri familiari, per essere aggiornato sulla evoluzione del virus in Olanda o in Italia o dove ho persone a cui sono da sempre legato».
Avrà avuto modo di leggere l’esito di un sondaggio della rivista Voetbal International, quello nel quale Mino Raiola viene ritenuto l’olandese più influente di sempre del suo Paese. «Non so chi abbia votato, né quanti e di quale generazione: ma c’è chi non ha memoria e non conosce il passato, un’assenza culturale che immalinconisce. Penso che Raiola abbia avuto modo di incidere adesso, nel suo settore, ma la Storia, quella con la maiuscola, appartiene a Rinus Michels e a Johan Cruyff. E non è necessario neanche aver studiato per sapere questo, basta chiedere un po’ in giro».
Ci sono miti incrollabili e non certo per definizione. «Michels ha cambiato il calcio, la ha reso diverso, ha piantato un seme e poi intorno alle sue idee ne sono germogliate altre. E’ un padre del calcio moderno, che però ormai ha cinquant’anni e non è mai invecchiato».
E negli occhi di chi ha visto quello spettacolo, abbaglianti, restano le maglie degli orange.
«Ci sono state tante Nazionali che hanno segnato un’epoca e ognuno ha il diritto di avere la sua. Però quella è andata oltre, ha caratterizzato non solo quel momento ma anche le stagioni successive. E se siamo ancora qui a parlarne, vorrà pur significare qualcosa».
Le classifiche sono antipatiche, a volte persino odiose, spesso improponibili… «Però posso parlare della mia, sperando di non far torto a nessuno: io penso che nel movimento mondiale, pur avendo rispetto per tanti club, l’Ajax di Michels, il Barcellona di Guardiola e il Milan di Sacchi si stacchino dal gruppo. E in questo mio podio personale le sistemo nella sequenza in cui gliele ho citate. In tutte, c’è almeno un denominatore comune».
Si potrebbe cominciare dalla bellezza, si potrebbe continuare ribadire: filosofia e uomini olandesi ovunque. «La straordinaria eleganza nel palleggio, la qualità elevata del loro calcio. Il Barça di Guardiola è figlia di quella squadra che era stata allenata da Rijkaard, che a sua volta con Gullit e Van basten ha dato il proprio contributo per il Milan. Ma sia chiaro, non ne faccio una questione di bandiera».
L’ultima partita che si è concesso? «Chiaramente in tv, Juventus-Inter del campionato italiano mi pare. Perché io guardo la serie A, la Spagna e la Premier League; poi poche altre cose, ma quando capita. Mi prendo il meglio, che è in questi tre tornei. E il calcio mi manca, ovviamente, ma so bene che bisogna andarci cauti, giusto non ripartire fino a quando non esisteranno le condizioni di sicurezza assoluta per tutti. Le dirò di più, leggo di ipotesi di partite a porte chiuse e impallidisco: io ne ho vissute, quando ero allenatore, e quello non è calcio, non dà emozione. Devi sentire la gente, devi trasmettere emozioni: il football è dei tifosi, ovunque, è per loro».
Cosa farebbe Krol, se potesse decidere…? «Lascerei che ci venisse suggerito da chi ne sa più di noi, gli scienziati, e però non cancellerei tutto quello che è rappresenta il recente passato. Non sarebbe giusto buttar via un campionato, con dentro i sacrifici degli atleti ma anche delle società. Prima, si concluda la stagione in corso, anche a dicembre se fosse il caso. poi si penserebbe a cominciare quella successiva».
E avesse una palla di vetro, cosa ci leggerebbe dentro? «Troppo semplice dirle dell’Inghilterra, dove il Liverpool è già campione in carica e dovrebbe potersi gustare questo successo. Mentre è difficile immaginare della Spagna e dell’Italia: non ci fosse stata la pandemia, lo scudetto sarebbe andato alla Lazio, secondo me. Mi divertiva guardarla, e tanto, come l’Atalanta a dirla tutta. E invece, dopo due mesi o tre di stop, non so come si ritroveranno le squadre. So che basterebbero quattro settimane di allenamento, per ritrovare la condizione e scendere in campo».
De Ligt, rappresentato come uno dei suoi eredi, non è ancora riuscito ad imporsi come si pensava. «Ma non è mai semplice, neanche a venti anni, cambiare abitudini. E in Italia è più difficile. Però stava facendo meglio, mi stava piacendo, e sono convinto che abbia enormi qualità e margini di miglioramento notevolissimi. Solo che a volte mi sono chiesto perché mai Sarri lo facesse giocare a sinistra, nei due centrali della difesa. Lui con l’Ajax ha sempre giocato a destra».
Il calcio che riscopriremo secondo Krol. «Per cominciare, non ci saranno affari da cento milioni, e sarà meglio così, perché si era tornati ad esagerare. Poi dimenticheranno e si spenderà più o meno allo stesso modo».
Un giovane che l’aiuta a distrarsi. «Fabian Ruiz del Napoli, ma va portato alle spalle degli attaccanti e messo in condizione di calciare dalla distanza. Ha il gol nel piede. Vede la porta. E’ un po’ lento, ma può snellire il suo modo di giocare».
C’è sempre Napoli nel suoi pensieri. «Io ci sono stato benissimo da giocatore e anche ora ho tantissimi amici, con i quali mi sento spesso per essere informato sulla città, su come stia vivendo questo periodaccio. Sono stato un uomo fortunato, ho avuto la possibilità di conoscere tanta belle gente, che mi fa sentire il proprio affetto in maniera impressionante. Un popolo meraviglioso che non ha dimenticato i nostri anni assieme».
Era il 1980… «L’anno del terremoto, un momento tristissimo per quella terra, la Campania. E anche allora, il calcio però ebbe una propria funzione».
Servirà ancora un pallone? «Aiuterà ad uscirne, non dico a dimenticare ma a superare la frustrazione e il terrore. Il calcio ha una sua funzione sociale e anche psicologica, è una passione collettiva».
La Redazione