«El Pampa», senza più nome e né cognome: el Pampa come l’amico della porta accanto o un fratellino (diremmo fratellone) comparso all’improvviso, come un amico, uno di voi. E da Udine ad Ascoli, da Messina a Napoli e poi via via in questo lunghissimo viaggio, vent’anni circa, quasi mai nessuno che lo chiamasse Roberto oppure Sosa. Solo i telecronisti, forse, perché «el Pampa» ha vissuto tra la gente, mica solo per la gente. «E l’ultima partita che ricordo di aver visto in uno stadio, al san Paolo, fu Napoli-Frosinone, quella della tripletta e del record del Pipita. Ero chiaramente in curva». Ne ha fatta di strada, eh sì, in un Paese che gli è rimasto dentro, e che ora attraversa per intero, in quel lento zigzagare della memoria fissando nel suo calcio possente e irregolare, in un’intervista rilasciata al CdS, però autorevole o forse quasi autoritario, ciò che si portò addosso per un bel po’, stampato sulla maglia che tiene con sé anche a La Plata. «C’era scritto: chi ama non dimentica, frase presa a prestito dai ragazzi della curva B del San Paolo che penso che sia adatta soprattutto adesso, in questa fase difficile della nostra vita: ce la faremo, ce la farete. Qui in Argentina c’è quarantena, ma la situazione sembra sotto controllo. Mentre leggo dell’Italia stravolta nel dolore e ne soffro sul serio: spero che passi in fretta e che tutto ciò possa solo essere un ricordo, seppur doloroso».
La chiameremo “tano”, Pampa», sapendo di non sbagliare. «Direi che ci sta: i miei nonni erano della provincia di Chieti, io sono un italiano ma anche un napoletano d’Argentina, grazie a Raffaella, la mia compagna che è partenopea. Sono arrivato a Udine nel ‘98, mi ci portò Pierpaolo Marino, che era venuto a seguire e Guglielminpietro in un Gimnasia-Boca, finito 0-1 con gol di Martin Palermo. E così fui l’erede di Bierhoff, fresco capocannoniere».
Comincia lì quel suo lungo viaggio su e giù per l’Italia. «Ascoli, Messina, Napoli, Sanremese e poi il supercorso di Coverciano, dove ho conseguito il patentino Uefa-Pro da allenatore e le stagioni da tecnico tra Sorrento, Savoia, Rionero, prima di rientrare qua in Patria».
Non ha smesso di girellare per il Mondo. «Ero andato in Bolivia ad allenare al Ciclon de Carija e poi ci siamo fermati anche noi, com’è giusto che sia. Perché in questo momento tutto è secondario rispetto alla salute. So che in Europa si discute su quando ricominciare, ma in questo momento le priorità sono altre: quando sarà possibile farlo, si potrebbe pensare di iniziare da dove si è finito ma senza porsi limiti, semmai pensando a ricostruire un calendario diverso da quello attuale e chiudendo anche in inverno, per poi far ripartire la prossima stagione a gennaio 2021. Ecco, una stagione modello-Argentina».
Proviamo a conoscerci sempre meglio: gli argentini e gli italiani descritti dal Pampa, che conosce entrambi. «Siamo simili, quasi uguali, soprattutto con quelli del Sud. Lo siamo perché socializziamo, perché siamo passionali, perché abbiamo affinità culturali, diamo un senso all’amicizia e al valore della famiglia. E poi quando si atterra a Napoli, in aeroporto, sembra di rivederci Buenos Aires; e viceversa, ovviamente. Ma è sostanzialmente la natura ad avere analogie, i comportamenti e direi anche i sentimenti. Ecco perché è facile che poi sia difficile, anzi impossibile, staccarsi gli uni dagli altri. E comunque c’è una storia che sottolinea questa unione tra i popoli».
Corneliusson, svedese con il quale ha giocato per un anno nel 2004, ne ha citato uno: il giorno in cui, alla festa di addio al calcio di Ciro Ferrara, arrivò Diego e lei scoppiò in un pianto. «Vero. E dissi anche: ma cosa devo avere di più dalla vita, ora, come calciatore? Lo avevo lì, nello spogliatoio del San Paolo, ci facemmo le foto. Io poi ho indossato la sua maglia, che un giorno gli ho portato a firmare quando lui era allenatore del Gimnasia, la mia prima squadra, quella per la quale faccio il tifo assieme al Napoli. Piuttosto devo dire a Corneliusson, ma scherzando, che l’anomalia sta nell’uso che fece lui di quella numero 10, che ha portato addosso in quella stagione per un po’. Ha mancato di rispetto a Sua Maestà».
Da quando è andato via el Pipita, non c’è più stato un argentino nel Napoli. «E non può succedere, non dovrebbe. Perché quella è terra che ci adora e che noi sentiamo come nostra. Mi piacerebbe si colmasse questo vuoto, ma qui non c’è un uomo che mi sembra possa conquistare Napoli, non quelli a cui sono abituati a Fuorigrotta».
In Italia non ce la passiamo poi male con gli argentini. «Higuain è una garanzia, Dybala è straordinario e Lautaro mi ha stupito per la capacità di ambientarsi immediatamente in un grande club come l’Inter. Lui e Lukaku sono strepitosi. E c’era anche Icardi, che però poi se ne è andato a Parigi e non mi sembra abbia scelto poi così male: club affascinante, tra tanti campioni, con la possibilità di competere per la Champions».
Nel suo album, tra i campioni avuti al fianco, ha inserito alcune belle figurine. «Sei mesi con Tevez al Boca; in Italia, a Udine, ho giocato con Marcio Amoroso e con Stefano Fiore; e poi Lavezzi e Hamsik a Napoli».
Ha un rapporto speciale con Pierpaolo Marino. «Che mi volle a Udine e poi mi ha portato a Napoli, primo acquisto per la rinascita del club dopo il fallimento. Ho visto crescere Ernesto e Gianmarco, i suoi figli, e con il primo in veste di manager sono anche andato a Sorrento, quando ho iniziato a fare l’allenatore».
Tra i vari allenatori chi scegliere? «Ne ho avuti: Guidolin, Roy Hodgson, Spalletti, Reja e altri ancora. Ma c’è stata una empatia particolare con Gigi De Canio, con il quale segnai 21 gol in un anno, e con Giampiero Ventura, che poi ritrovai in Campania dopo l’esperienza in Friuli. Ma sono stato bene con tutti».
Uscì dal San Paolo in lacrime dopo Napoli-Milan 3-1. «Fu un saluto struggente, che Montervino, Calaiò e Paolo Cannavaro decisero che celebrassi con la fascia di capitano al braccio. Ora capirà perché faccio fatica e scegliere una sola immagine di questa mia vita italiana: per me ogni giornata ha avuto una sua importanza, pure le lezioni al Master di Coverciano. Oppure, per esempio, posso ricordare la mia tripletta all’Inter, con la maglia dell’Udinese, della quale ho scoperto sono trascorsi da poco vent’anni. Ma se vuole gliene trovo talmente tante che non le bastano le pagine del giornale per raccontarle».
In questo clima di incertezza non le è vietato sognare. «La panchina del Gimnasia o quella del Napoli, ovviamente. Quando mi chiedono dove sia il mio cuore, io penso a queste due società».
Da quanto tempo non viene da queste parti? «Ultimo viaggio in Italia, a Napoli, per il Capodanno del 2019. E’ arrivato il momento di tornarci, per provarci come allenatore: ma non c’è fretta».
I contatti con i suoi compagni d’un tempo non sono svaniti… «Sento spesso Fabio Gatti, con il quale c’è affetto sin dal primo momento. Ma con tanti, anche con gente comune che mi aggiorna sulla evoluzione del virus in Italia, c’è modo di telefonarci. Giorni fa ho parlato con Lavezzi, che è rimasto bloccato su un’isola, nei pressi di Saint Martin, sorpreso anche lui dalle restrizioni».
In tv quale partita segue? «Del campionato italiano, chiaramente il Napoli. Poi seguo Bolivia, Argentina. Non posso vederle tutte».
Riesce a immaginare un futuro, adesso? «Bisogna farlo. Con ottimismo e grazie a comportamenti seri. Sono uscito dopo 16 giorni per andare al supermercato a fare una spesa che mi consenta di starmene in casa altre due settimane. Non possiamo scherzare e so che gli italiani sono rigorosi. Non so cosa succederà, quando riprenderemo la normalità, però immagino che quando la serie A ripartirà, la Juventus continuerà ad essere la padrona del campionato. Dobbiamo abituarci all’idea per un bel po’».
La Redazione