Non potrebbe essere altrimenti, come potrebbe. Cesare Prandelli, l’ex ct dell’Italia, ha il cuore a pezzi. La sua Orzinuovi è stata uno dei focolai dalla pandemia. Il calcio non sembra adesso al centro dei suoi pensieri.
La situazione migliora nel suo paese? «Sì, ma fino ad adesso è stato come un bollettino di guerra. Ci sono stati giorni fuori controllo, in cui le cattive notizie si susseguivano una dietro l’altra. Lì c’è mia mamma Aldina che ha 90 anni e che ogni giorno mi chiede perché non sto da lei. Appena abbiamo intuito la situazione, l’abbiamo blindata in casa, con largo anticipo rispetto alle restrizioni del governo. Negli ultimi giorni le cose pare vadano meglio e ho l’impressione che ci sia un barlume di luce finalmente…».
Sono state settimane d’angoscia. «La tragedia nella tragedia è quella di non poter stringere la mano al proprio caro negli ultimi istanti della propria vita, provare a dargli conforto, fargli sentire una carezza. È terribile il fatto che li vedi quando li ricoverano in ospedale e poi spariscono per sempre. Senza sentirli più, senza un ultimo saluto. Sappiamo come è importante essere lì quando la persona a cui vuoi bene se ne sta andando. Io ho lasciato il calcio per non abbandonare neppure per un secondo mia moglie nei mesi della sua malattia».
Si è spiegato perché Orzinuovi è stato uno dei focolai? «La colpa è stata forse di una partita di bocce con quelli di Codogno. Probabilmente è lì nel bocciodromo che ci sono stati i contagi involontari. Ma secondo altri c’entra il mercato del fieno, che è assai importante. E, dicono, c’era tanta gente di Lodi».
Cosa non ha funzionato? «Erano tutti impreparati, virologi e scienziati. Nessuno ha capito quando doveva capirlo quello che stava succedendo. E ricordo il caos dei primi giorni, quando c’era chi diceva che bisognava chiudere tutto e chi, invece, si opponeva. Abbiamo, probabilmente, regalato una settimana al virus per espandersi come ha fatto».
Senza poter arginarlo. «A un certo punto c’è stato un senso di impotenza. Il mio amico Danfio con cui ero stato al bar in piazza prima di partire per Firenze è morto in una settimana. L’ho chiamato senza sapere che stava male e non mi ha risposto. Ho saputo che non ce l’aveva fatta. E anche Massimo Bosio era un medico che mai per un secondo ha pensato di smettere di curare le persone».
Come si immagina la ripresa? «È un sogno il mio: mi auguro che sia l’occasione per cambiare. Siamo di passaggio, questo mondo non è nostro, e la natura pare che si sia rivoltata contro di noi e ci ha mandato un messaggio: bisogna darsi una regolata. C’è da rivedere tante cose, la sanità, l’università, la ricerca».
Gli eroi di questi giorni non sono i calciatori. «E meno male. Lo sono i medici, gli infermieri, i volontari che si sono messi a disposizione rischiando la propria salute, Sono loro le persone speciali. A cui non dovremo mai far mancare la nostra riconoscenza, anche quando questo incubo sarà finito».
Cosa dovrebbe fare la politica? «Smettere di litigare, imparare la lezione, capire cosa non ha funzionato e rimediare. E investire in quei settori dove il nostro Paese sa di poter eccellere, trattenendo i giovani migliori che invece spesso sono costretti ad andare altrove».
Il calcio come ne sta uscendo? «Per 15 giorni hanno discusso se togliere uno stipendio o due e la cosa mi pare talmente senza senso. Mi aspettavo un gesto dei calciatori, magari lo faranno e diranno: non siete voi che ci decurtate l’ingaggio, lo facciamo da soli ma destinate questi soldi ai nostri colleghi delle serie minori che se la passano e se la passeranno malissimo nei prossimi tempi».
Già, sarà un altro dramma. «In molti parlano della tenuta della serie A ma alla fine resisteranno tutti, con qualche rinuncia. Ma ci sono le squadre dei ragazzi, quelle dei non professionisti che non so che fine faranno senza la solidarietà degli altri».
Pure la manfrina dell’ultima giornata giocata chi prima, chi dopo…«Ci hanno voluto proporre a ogni costo un calcio che non era calcio, a porte chiuse. Ma non aveva senso. Perché si capiva che sarebbero state le ultime partite perché poi il calcio si sarebbe fermato. C’erano le prime decine di morti, ed era impensabile poter andare avanti facendo finta di nulla».
Cosa farà appena tutto sarà finito? «Correrò da mia madre. Ma prima mi fermerò a Bologna dove Nicolò mi ha reso nonno per la terza volta una settimana fa. Si chiama Edoardo e l’ho conosciuto solo con la videochiamata. La vita per me riprende da lui».
Fonte: IL Mattino