Lodi, Casalpusterlengo, Milano, Crema: e quello è un mondo accartocciato nei ricordi, immagini sbiadite che sembrano ondeggiare nel vuoto che circonda. «Vorrei rivedere gli anziani, i nostri padri, i nostri nonni, che giocano a carte dinnanzi o dentro a un bar». E mentre intorno c’è il deserto, né sagome e né voci, c’è una traccia d’un tramonto nel quale si può andare a passeggiare per esorcizzare il terrore con il quale ancora Andrea Dossena convive. «Io mi sono divertito, con il calcio, e ancora lo faccio: allenavo a Crema, avevo cominciato da tre mesi. Ora spero si possa riprendere, ma la vedo dura, soprattutto in Serie D, perché i presidenti hanno aziende ferme, bloccate e la crisi li sta soffocando: se non lo ha già fatto, ci sono molte possibilità che accada, e capisco che ricominciare a giocare, per chi ha problemi economici, possa essere l’ultimo dei propri pensieri». Ci sono storie tristi che restano lì, aspettano (maledizione) d’essere raccontate e però c’è anche la voglia di lasciarsi alle spalle queste macerie che sommergono la memoria, riducendola quasi in polvere, e sembrano offrire la speranza che un giorno – magari presto – ci si possa lasciare andare e ritrovarsi, semmai, lungo quel giardino, in realtà era una fascia sinistra, che Andrea Dossena ha attraversato in lungo e in largo, in un viaggio che gli è appartenuto per davvero. «La magìa di Anfield, diciotto mesi indimenticabili, in un tempio del calcio inavvicinabile, perché per abbonarsi, a quel tempo, bisognava attendere anche cinque, sei, otto anni. Poi tornai in Italia e scelsi Napoli, e lì ho scoperto la travolgente passione del Sud, io che avevo giocato solo a Nord o in Inghilterra».
CdS