Rubrica Amarcord – di Stefano Iaconis: “L’altro Lui…”

Una volta fece un gol contro la Roma. Era Aprile. Il San Paolo si stava rifacendo il trucco per i mondiali del ’90. Ed un piccola fetta delle tribune era inagibile. Lui segnò dalla linea di fondo. D’esterno destro. In porta c’era Cervone. Che rimase immobile. Noi dai distinti capimmo che era gol attraverso il magma dell’onda sonora 25propagata dalla curva. E poi venne giù lo stadio. Lui ne ha segnati tanti. Tantissimi. Ma quello non l’ ho mai dimenticato. Finì 3 a 1. E quel gol fu uno dei sentieri sulla strada del secondo scudetto. Lui era Antonio Careca. L’altro. L’altro Lui. Pure egli in maiuscolo. Perché se Diego Armando Maradona rappresentò il genio, Careca fu il suo mantello. Tinto con la porpora di una classe infinita. In una foto viene immortalato in corsa. Inseguito da Filippo Galli. Quello del Milan degli invincibili. Quello di Sacchi. Il rivale di sempre. Careca, nella foto, ha i capelli nel vento. Sembra che la foto si muova. Sprigiona potenza. Anche in un fermo immagine. Fu la domenica nella quale Diego inventò il gol di testa da centrocampo. Eludendo il fuorigioco olandese dei rossoneri. Careca filò in porta con la palla. Cinquanta metri di corsa senza che la distanza dal difensore mutasse di un metro. E poi, di destro, nell’angolo lontano. Con una lucidità feroce. Da fuoriclasse. Autentico. A Torino, in un cinque a tre leggendario rifilato alla Juve di Manfredi, nel quale realizzò una tripletta, confezionò un capolavoro sfidando ogni logica di reazione inversa. Entrò in area dopo una corsa infinita delle sue, e scavalcò Tacconi con un pallonetto morbido. La palla venne respinta un attimo prima che varcasse la linea di porta, e Careca, sebbene nella corsa fosse uscito oltre la linea di fondocampo, recuperò il movimento, anticipò Brio, raccolse la sfera e la infilò, in rete. Instillò pensieri romantici. A Milano. Contro l’Internazionale. Lasciò partire un proiettile da 30 metri. Improvviso. Una parabola in picchiata. Zenga si protese per quanto era lungo. La palla lo scavalcò. Antonio Careca spalancò le braccia e corse verso il settore napoletano. Appena fu sotto sfiorò il simbolo sulla maglia, la “enne” con un bacio lieve. Non lo avevo mai visto fare a nessuno, fino ad allora. Poi, quel gesto fu abusato. Ma lui era vero. Amava. Sentiva. Soffriva. Dopo la disfatta di Brema in Uefa, un 5 a 1 mortale che estromise i detentori, il Napoli, dagli ottavi, Pacileo, il Pep, il vate decano dei giornalisti sportivi partenopei, gli rifilò un 3 in pagella sul “Mattino” del giorno seguente. Lo apostrofò “coniglio”. Careca non fece un fiato. Lui non ha mai parlato. Mai. Mai una polemica. Mai un motto fuori posto. Fece parlare il campo. Lui faceva sempre così. Era un silenzioso. Si apriva alla gioia solo quando colorava i suoi pomeriggi domenicali con il gol. E lì era samba. Passi incrociati. Una mano sollevata al cielo, una alla vita. Da perfetto ballerino. Perché aveva il ballo nel sangue. Danzava palla al piede. Arabeschi guizzanti, i suoi movimenti. Correva come fosse un vento portato da un ciclone. Infilandosi in ogni pertugio, inarrestabile. Inafferrabile. E sapeva essere una brezza di primavera. Quella che annusi dopo l’inverno. Che ti fa sentire la nuova stagione. La stagione delle vittorie. Careca è stato irripetibile. In un momento storico per il football irripetibile nel suo ruolo. Assieme a Van Basten il più forte centravanti mai sbarcato in Italia dalla meta’alla fine degli anni ottanta. Uno di quei numeri nove con i piedi di un dieci. La velocità di un Carl Lewis. La potenza e la precisione nel tiro di un artiglierie napoleonico. Careca resterà indimenticabile. I suoi gol nella memoria. Mi piace pensare che, in un angolo del San Paolo, da qualche parte, l’ombra invisibile di Antonio si sprigioni in un samba di gioia ogni volta che a Fuorigrotta il Napoli segna. E che, chi abbia visto Careca sul prato, in azione, in quel tempo, la vada a cercare con lo sguardo. Per vederla danzare.

a cura di Stefano Iaconis

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