IL VANGELO DI GIANNI
Veniva dalle osterie, dai casini per strada, dagli stadi scomodi, amava i quartieri poveri e i poveracci, aveva un suo vangelo che dallo sport arrivava alla vita e viceversa, dove la scrittura era una possibilità se non per raddrizzare le cose almeno per metterle alla storia. Era monicelliano, perché preciso nelle parole e nei giudizi, secco nelle battute e nei racconti. E alla fine rivendicava la forza del ciclismo, dove, diceva, c’erano i muratori dello sport e la fatica vera.
Non è un caso che se ne sia andato nell’anno senza Tour de France, per lui che contava la vita e le estati in Tour. E che nel racconto delle tappe ha scritto il suo grande romanzo che partiva dalle ruote delle biciclette e si allargava al paesaggio, all’architettura e finiva a tavola con cibo e vino. Perché conosceva tutto di quelle strade e di quella gente, profumi e dialetti, campi e cucine, ogni suo Tour era un ritratto completo della Francia, e di chi c’era non solo di chi vinceva.
Che condiva con l’ironia e la curiosità, l’ironia figlia della Milano di Beppe Viola ed Enzo Jannacci e la curiosità bambina che non gli era mai passata e che lo faceva rispondere sempre e a tutti. No, non ha mai avuto la compostezza del ruolo, anzi, aveva la giustezza della risposta e la prontezza d’animo: perché veniva dalle brevi, dai tagli bassi, dalle scarpinate, dalle partite assurde e dai collegamenti ancora più assurdi per raggiungere quelle partite, dove ogni viaggio era già racconto e viaggiando imparava a salvare ricordi e parole, attimi e silenzi. Fonte: Il Mattino