Per la prima volta Krol parla del padre Kuki: “E’ stato un grande centrocampista”

L'ex calciatore olandese del Napoli ai microfoni de "il Mattino"

Rudy Krol parla da Marbella e lo fa ai microfoni de “Il Mattino” sulla pandemia Coronavirus e racconta di suo padre. 

Ha paura, Krol? «Ho 70 anni ed è difficile pensare alla mia Olanda come un Paese dove ci siano dei divieti. È il posto al mondo dove sempre tutto è stato consentito. Ma negli ultimi giorni non è più così, da oggi credo che abbiano chiuso pure le scuole. Ma anche qui nel Sud dell’Andalusia è piena emergenza. Non è ancora il panico che c’è a Madrid o a Barcellona in queste ore ma tutti si stanno isolando. Non capisco davvero come l’Uefa potesse pensare di far giocare Barcellona-Napoli. Qui tutti sono sicuri che i contagi dei calciatori del Valencia siano legati alle due partite in Champions con l’Atalanta. Una follia non fermare il calcio».

Ora allenarsi è impossibile, non trova? «Certo, è diverso. Le misure di contenimento dell’Italia sono severe e bisogna rispettarle. Ma quando finirà tutto, il primo segnale di normalità arriverà dagli stadi che apriranno: anche noi giocavamo al San Paolo con le macerie che c’erano in tutta la città. E con i feriti in ospedale. Che noi andavamo a trovare molto spesso: e ci rendevamo conto di quanto era importante per loro vederci, nonostante i tanti guai che avevano passato».

Cosa è giusto fare? «Ascoltare le indicazioni e restare in quarantena: non si deve uscire di casa e non si devono violare le restrizioni. Non credo che sia una cosa impossibile da fare, non mi pare che venga chiesto chissà cosa per il bene di se stessi e di tutti».

Sembra una grande sofferenza, per molti, restare chiusi in casa.
«Una sciocchezza se si pensa al sacrificio di tanti nel secolo passato. Le racconto di mio padre. Non lo faccio mai, ma forse serve a capire…».

Suo padre faceva parte della resistenza olandese? «Si chiamava Kuki ed era stato anche un grande centrocampista. Aveva un negozio ad Amsterdam dove prima vendeva biciclette e poi abbigliamento. Dopo la resa dell’Olanda, lui decise di aiutare gli ebrei che dovevano sfuggire dalla deportazione del quartiere ebraico di Jodenbuurt. Li nascondeva per giorni nella sua casa, e lì dovevano restare in silenzio senza muoversi per settimane prima di poter partire con passaporti falsi in località segrete. Settimane trattenendo il respiro, evitando ogni minino rumore e non guardando la t.v. o altro come si può fare adesso. A papà la Gestapo puntò la pistola alla testa durante un controllo ma lui non tradì gli ebrei che nascondeva nella nostra casa. Per anni abbiamo avuto nel salotto una foto di un ragazzo: era il garzone del negozio. I tedeschi, durante una perquisizione, lo scoprirono con dei documenti falsi. Lo arrestarono e non tornò mai più».

Bisogna trovare quello spirito e quella forza? «Il calcio sembra eternamente un’isola felice ma non lo è. A volte pare che non capisca quello che succede intorno o non voglia capire. E va sempre avanti. Non mi stupisco che ci abbia messo così tanti giorni prima di dire stop. Come quando nel 1978 andammo in Argentina a giocare un Mondiale infischiandocene del regime dei militari, dei desaparecidos e del fatto che a pochi metri dallo stadio Monumental di Buenos Aires dove si giocò la finale c’era uno dei luoghi di tortura di migliaia di ragazzi della nostra età (la escuela de mecanica de la Armada, che oggi è un luogo della memoria, ndr). Noi non ne sapevamo nulla, eravamo giovani, ci dicevano di giocare. E noi lo abbiamo fatto. Come hanno detto a tanti ragazzi in queste settimane di andare avanti, senza pensare alla salute».

Cosa prevede per questo finale di stagione? «Se le previsioni delle autorità saranno rispettate, a maggio si potrà tornare in campo. E se non ci saranno le condizioni, salterà tutto e inizieremo la prossima stagione. Il calcio è gioia per tutti, per chi guarda e per chi lo gioca. Ma la vita viene prima di tutto». 

La Redazione

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