Partimmo all’alba, quel giorno. Come ogni volta. In 500. Una di quelle scatole piccole dai colori solitamente forti, giallo, o rosso, nelle quali il riscaldamento era azionato da due levette che rendevano l’abitacolo un forno crematorio. E quando non era una 500, si trattava di una 126. Oppure una Mirafiori. Un lusso per l’epoca. Partimmo, come ogni volta, con il sole che colorava di arancio brillante il nastro stradale. Sorgendo dal crepuscolo. Destinazione Roma. L’avversario la Lazio. Noi due. Ciascuno con al collo una sciarpa azzurra annodata con la speranza. Perché l’anno prima lo avevamo sfiorato, quel piccolo triangolino tricolore che ci faceva sospirare. Perduto a causa di quella maledetta domenica di aprile a Torino. Quando Altafini si era alzato dalla panca ed aveva spezzato il sogno. Al novantesimo. Ed ora ci riprovavamo. Perché anche se era solo dicembre, vincere ci avrebbe riportato lassù, in testa alla classifica. Contro la Lazio. La straordinaria Lazio di Chinaglia. La strada vuota ci accolse nel silenzio rotto solo dal rumore delle marce inserite che facevano un fracasso infernale. Venivamo superati da auto che facevano il medesimo percorso. Le sciarpe del Napoli in bella mostra sul cruscotto. O fuori dal finestrino, come vessilli sbandierati in quei tornei cinquecenteschi quando i cavalieri si esibivano in giostre dove pennacchi e gagliardetti colorati garrivano al vento. Ci fermammo a Caserta. Come sempre, tappa obbligatoria. Che ci sembrava di essere in auto già da secoli. Per un caffè, ed un cappuccino. Ripartimmo mentre nell’autogrill un bus dalle fiancate colorate con improbabili scritte di agenzie di viaggio, scaricava tifosi in viaggio verso la medesima destinazione. Roma. Quel mattino di Dicembre del 1975. L’ autostrada ci fagocitava verso la capitale chilometro dopo chilometro. E noi cantavamo i nostri cori. Dolci. Che oggi chiamerebbero antichi. Invocando i nostri azzurri in pantaloncini sempre troppo stretti e maglie che sembrano eternamente infeltrite. Roma ci accolse nella cacofonia di un milione di suoni. Il passaggio dinanzi al Colosseo. La sosta obbligata nel riverbero del sole alto con i raggi che si inseguivano dentro i finestroni a guardia dei secoli. Una giornata gelida. Ma luminosissima. Un presagio di luce. Ai semafori auto con la targa Na. Napoli. Fratelli di speranza e di trasferta. Finestrini abbassati con olio di gomito e saluti. Battute. Scaramanzie. Un altro calcio. Un’ altra epoca. Un altro sentire football. Ingenuo, puro, con le stimmate del gioco impresse nel modo. Il solito ristorante. Quello di ogni volta. Il nostro. Ulisse. Verso piazzale Clodio, zona Eur. Con il solito professore dalla spilla della Lazio in bella mostra sul bavero. Lui stava sempre lì. E quando si incontrava la Roma, vaticinava di vittorie del Napoli. Mangiando il suo abbacchio nell’angolo lontano. “Oggi ve famo neri. Due a zero. Segnano D’Amico e Garlaschelli“. Pronostico secco. “A rega’, noi semo la Lazio. E poi oggi c’è Maestrelli che rientra. Oggi è una festa“. E via un’altra forchettata di abbacchio. Ed un sorso di vino. Già, rientrava Maestrelli. Tommaso Maestrelli. Il tecnico adorato dal popolo laziale. Il creatore di una squadra formidabile. Rientrava, dopo la malattia. Una malattia terribile. Che lo avrebbe poi stroncato comunque.
Lui, l’ ottavo re di Roma sponda bianco celeste. Il divo Tommaso. Un brivido. E poi l’ Olimpico. Imbandierato a festa. Il vecchio Olimpico. Quello senza copertura. Dalla Tevere si vedevano le colline di Montemario ed io immaginavo le legioni romane che ne discendevano i crinali. Con le caligae che battevano fragorose a migliaia sul terreno. E diecimila napoletani. Ovunque, dappertutto. Perché il Napoli di Vinicio faceva sognare. Prima di Maradona. Prima di Sarri. Quello di Savoldi adesso e non più di Sergio Clerici. El gringo. Quando entrò Maestrelli un boato scosse le fondamenta dello stadio. Si udì fin sulle lastre di porfido dei fori imperiali. Ridestò dal sonno eterno quelli che Roma avevano reso tale. E poi la partita. Garlaschelli che segna dopo due minuti, evocando il pronostico del professore laziale. Ma il gol viene annullato. E Boccolini, il 10 in azzurro che infila una punizione nel sette alla destra di Pulici. E colora di solo azzurro ogni settore dello stadio. E noi che ci abbracciamo. Abbracciando chiunque fosse a tiro. Senza mascherine. Senza alcuna paura. Un groviglio di braccia e mani al collo. Al minuto dodici. Di un giorno di dicembre. E la Lazio che schiuma rabbia. Attacca, a testa bassa. Ed il Napoli che risponde, colpo su colpo. Massa, Peppino Massa, ala destra dalla statura lillipuziana e l’estro guizzante, che si divora il secondo gol. La Lazio, la grande Lazio, dal talento inarrivabile preda di una giornata di stanca. Si fa male Savoldi. Beppe gol. Esce. Zoppicando. Un tremore invade i diecimila. Senza il suo condottiero. E di là il condottiero dai capelli bianchi, in cappotto, dall’aria stanca ed il profilo emaciato a bordo campo, chiama a sè D’Amico. Le braccia incrociate. L’aria corrucciata. D’Amico che gli si avvicina. La mano sulla spalla, confidenziale. Un sussurro, un annuire. Mentre Boccolini, servito da Sperotto che ha preso il posto di Savoldi, fila via solitario verso la porta laziale e tira addosso a Pulici. Con i diecimila che si disperano. E l’urlo, da ogni settore. Perché a Torino, nel derby, la Juventus è sotto. E se finisce così il Napoli è primo. Da solo. Ancora. E finisce così. Con Vinicio che cammina per il campo con quella sua andatura da guascone a gambe larghe, e gli azzurri che si abbracciano. Mentre parte oje vita, oje vita mia. E noi ci abbracciamo. In testa alla classifica. A stropicciarci gli occhi, con la collina di Montemario nel pomeriggio di Roma, gli alberi che digradano verso il basso, in fila. E poi via, in auto, uscendo dalla capitale in un coro di clacson. L’autostrada. La radio che gracchia i risultati. La classifica. Il Napoli in testa. Io che mi accoccolo nel tepore. La piccola scatola che viaggia verso casa. Nella sera che scende. Ed io scivolo nel sonno. Mentre la punizione di Boccolini si infila nel sette. In un film infinito
a cura di Stefano Iaconis