“PINO FOREVER” – Omaggio a cinque anni dalla morte

Cinque anni dopo, Pino Daniele è un'assenza che pesa, è una presenza che sana

PINO  FOREVER


Ma se «’o tiempo d”e cerase» era già finito all’epoca di «Donna Cuncetta», ed ormai sono passati più di quarant’anni, che tempi sono questi che stiamo vivendo? Ma se davvero è sventurata quella terra che ha bisogno di eroi, come suggerì Brecht, allora com’è messa quella terra che come icona si sceglie un cantautore? 
Pino Daniele, che oggi ricordiamo a cinque anni esatti dalla sua improvvisa scomparsa, ha lasciato un senso di vuoto: nella città, nella canzone newpolitana e quindi italiana, nella cultura cittadina e quindi nazionale. Non ambiva al ruolo di icona, tantomeno di portavoce, eppure è stato l’una e l’altra cosa, già in vita. Icona? Certo, il Pino della nuova Napoli sognata, forse anche sfiorata più volte: quella del sindaco Valenzi, quella della notte di note del 19 settembre 1981, quello del supergruppo verace, dissoltosi come neve al sole subito dopo; quella del rinascimento del sindaco Bassolino; quella del neapolitan power, dei neri a metà che rubavano alla cultura della blaixploitation la terminologia oltre ai suoni e i ritmi.
Mai eroe, ma sempre a muso duro, il Lazzaro Felice ha attraversato gli anni Settanta e Ottanta regalando alla generazione dei cantautori l’illuminazione di un suonautore, alla metropoli retrò e snob che rimpiangeva la «bella jurnata» l’urlo travestito di melodia di «Napule è»: nè prima nè dopo nessuno ha descritto così bene questo paradiso abitato da diavoli, la speranza nascosta nella voce d”e criature che saglie chiano chiano e ci fa sentire meno soli, ma sempre coscienti di essere carta sporca e corresponsabili del degrado della grande bellezza in cui viviamo. Carosoniano nell’anima, americano di Napoli, contaminatore contaminato dal rock e dal blues e dal jazz, ma prima ancora dalla canzone classica napoletana e poi ancora da Gesualdo da Venosa e dall’Africa e dal Brasile e dal resto del mondo, o Pinotto ci ha tolto gli schiaffi che avevamo preso negli anni delle mani sulla città e poi ripreso negli anni del nuovo saccheggio metropolitano, e poi ancora del (ri)nascente razzismo nei confronti dei meridionali. Ma il suo canto-voce di dentro non ha usato le radici come un alibi, la tradizione come una gabbia, anzi: ha suonato con Roberto Murolo ed Eric Clapton, con Rino Zurzolo e Pat Metheny, con James Senese e Wayne Shorter. Ha sognato Sergio Bruni e Miles Davis, qualche volta li ha anche fatti incontrare nel suo lingo sonico, nella sua capacità di abbattere barriere e quei muri che oggi qualcuno vorrebbe tanto veder rialzare.
Come De Andrè, come Gaber, come altri cari estinti, Daniele è stato talento scomodo, che oggi in molti vorrebbero piegare a santino, ma resta irredimibile il suo stile verace in direzione ostinata e contraria, da figlio del popolo salvato dalle ziette che lo hanno fatto studiare, che gli hanno permesso di suonare una chitarra, di inseguire il sound dei Cream nella città che ancora piangeva la fine del «festivàl». 
Da quella notte di cinque anni fa in cui se n’è andato, la sua assenza-assedio è diventata una presenza altra: presto forse verrà anche una fiction, o un film, a ricordarlo dopo concertoni, concertini e docufilm, rassegne e murales, t-shirt e calamite vendute a turisti che vorrebbero portare a casa, con il volto di quello scugnizzo cresciuto nel centro storico, l’anima di una città che la gentrificazione sta cancellando.
Ma poi, quale era «’o tiempo d”e cerase»? Quello dei sogni-bisogni e dei suoni giovanili traditi? Quelli di una purezza verace rimpianta dall’era dello Sgruttendio come i «belle tiempe e na vota»? Forse, in fondo, anche questo rimpianto corre il rischio di paralizzarci, di non farci correre incontro al futuro, come quello del La Capria di Ferito a morte. E allora, beata quella terra, come la Bologna di Dalla o la Genova di De André, che per icona si può scegliere non un eroe, non un santo o un navigatore o una sardina, ma una voce che ha avuto il coraggio di attraversare il suo tempo con il vento in faccia, di essere radice e ali, centro e periferia, locale e internazionale, non banalmente glocal come si dice oggi. 
Cinque anni dopo, Pino Daniele è un’assenza che pesa, è una presenza che sana. E tu saje ca nun si’ sulo. A cura di Federico Vacalebre su IL MATTINO

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