Una volta, cioè 27 anni fa, i fuochi d’artificio erano stati preparati in abbondante anticipo. 1992, seconda stagione del post Maradona, Claudio Ranieri in panchina e una campagna acquisti che in estate fece stropicciare gli occhi. In squadra giocava gente del calibro di Galli, Careca, Ferrara, Thern, Zola, Fonseca. «A novembre squillò il telefono, era il mio fraterno amico Enrico».
Ottavio Bianchi, allenatore del primo scudetto e della Coppa Uefa, è sempre rimasto al capezzale azzurro negli anni difficili come il vecchio medico di famiglia. Enrico di cognome faceva Verga ed era in quel periodo il dirigente più vicino al presidente Corrado Ferlaino. «Mi pregò di scendere a Napoli. Mi rivolevano in panchina. Dissi di no due volte semplicemente perché non me la sentivo. Alla terza dovetti cedere, Enrico me lo chiese a titolo di favore personale».
Il cambio tecnico venne deciso dopo un Napoli-Milan 1-5. Un paio di allenamenti bastarono a Bianchi per intuire l’origine di tutti i mali. Si presentò in sala stampa esattamente con le stesse parole di Gattuso sabato sera: «La squadra ha paura, il problema è nella testa».
Se lo ricorda?
«Più o meno. Se hai esperienza, ti basta scrutare negli occhi dei calciatori. Gente che portava sulle spalle cognomi illustri non poteva aver smarrito in poche settimane le conoscenze del calcio».
Furono settimane complicate, culminate nell’aggressione della squadra al centro Paradiso di Soccavo. La paura era ovunque.
«Una condizione mentale apparentemente serena è alla base di buoni allenamenti, buone partite e buoni risultati».
Poi ci fu il tocco del maestro. Bastò qualche piccola modifica, ad esempio l’arrivo di Nela che divenne il luogotenente di Bianchi in campo e fuori.
«Fu faticoso uscire dal tunnel perché dovemmo ripartire da zero: il modo di allenarsi, di approcciare le partite e naturalmente di giocarle».
L’ambiente può essere un prezioso alleato o un tremendo nemico.
«Esatto, è proprio così. Se devo trovare un punto di congiunzione tra oggi e ventisette anni fa, allora dico proprio l’ambiente».
Che non è soltanto il tifo che circonda il Napoli.
«È tutto: il modo di vivere la quotidianità e di interpretare il calcio in una città come Napoli. Io sono stato calciatore ai tempi di Sivori e Altafini, giocavamo davanti a novantamila spettatori: battevamo le big e poi finivamo come polli contro le squadrette. Se sei forte, non puoi crollare contro avversari inferiori. Diceva la stessa cosa Pesaola: il Napoli sarà grande quando club e calciatori avranno capito come gestire il proprio modo di vivere e di lavorare in un ambiente così particolare. Ma vi pare che questa squadra possa fare quel tipo di prestazioni contro il Liverpool e poi perdere in casa con Bologna e Parma?».
Fragilità psicologica, mancanza di personalità o altro? Cosa c’è alla base di tanta paura?
«Posso immaginare cosa non ci sia: la capacità di isolarsi da ogni cosa che ti circonda e di immergersi esclusivamente nel lavoro. Nel ’92 quando misi piede nello spogliatoio dissi ai giocatori le stesse cose di quando iniziammo il cammino verso il primo scudetto: se vogliamo raggiungere un obiettivo, dobbiamo estraniarci dalla realtà che è intorno a noi».
Gattuso dovrà comportarsi alla stessa maniera?
«Se ha guardato bene intorno, saprà cosa fare. I ventimila del San Paolo dicono che tutto l’ambiente è malato».
Basterà agli azzurri per ritrovare il gioco?
«Adesso hanno il braccino del tennista. È chiaro che se gli stessi calciatori ora vanno male dopo aver giocato in scioltezza e in maniera spettacolare per tanti anni, qualche altra ragione deve esserci. In campo e fuori è venuta mano la continuità del lavoro». Fonte: Il Mattino