Quando a Salisburgo, il 23 ottobre, Lorenzo Insigne s’è messo a correre con il suo sorriso smagliante, stampando un cuoricino sulla telecamera, forse nemmeno nel angolo più sperduto del cervello gli è passato per la testa quel che stava succedendo: in quel preciso istante, anzi, forse gli è parso l’inizio di una nuova storia, lui e Ancelotti, al quale stava “zompando” addosso, lui e il Napoli, che con quel gol stava trascinando (quasi) agli ottavi di finale di Champions, lui e la propria ombra, da prendere a spallate o magari a pedate, un tiro a giro e via da qua. E invece, proprio in quell’attimo, ma vai a capire tu il destino cosa diavolo ti confeziona, Insigne, inconsapevolmente, stava per piombare di nuovo nel vuoto dal quale pareva riemerso. Gli otto minuti più beffardi della sua esistenza ora restano qua, come un poster dell’illusione, mentre intorno Insigne comincia a cogliere la normalità assoluta dalla quale, invece, s’è ritrovato sistematicamente escluso: ma da quell’acuto, quattrocentottanta secondi dal momento in cui si alza dalla panchina a quello in cui autografa il 3-2, il talento è sfiorito, il leader s’è dissolto e il capitano ha avvertito un dolore al gomito a San Siro ed ha dovuto rinunciare alla trasferta a Liverpool. La notte della svolta lui l’ha osservata dal divano di casa, ha visto segnare Mertens, dopo che a Milano c’era riuscito Lozano, s’è messo a contare i giorni che lo separano dall’ultima prodezza in campionato, sono settanta ormai: gli accadde a Lecce, quando gli venne chiesto di tirare due volte quel rigore simbolico dentro alla vittoria. E ora tocca a lui. Fonte: CdS