Il capitano – per status, per definizione, per lignaggio, per senso d’appartenenza e anche per leadership – è un intoccabile o qualcuno che vada vicinissimo ad un ruolo del genere e la tribuna di Genk, sistemata nel paltò di una amabile bugia offerta da Ancelotti («l’ho visto meno brillante del solito e degli altri») è un paravento che resta lì, per tenerci dentro l’Insigne segreto. Quello che all’improvviso ha smesso di avvertire intorno a sé una centralità che però deve guadagnarsi, come ha avuto modo di ripetergli sin dal caffè del primo maggio scorso a casa di Ancelotti, Mino Raiola; quello che deve liberarsi dai fantasmi delle congiure ambientali d’una città – o d’uno stadio – impaziente e a volte intollerante; quello che sa convivere con il turnover, però si accomoda in panchina e non dev’essere spedito a guardare la partita dall’altro, a riflettere sul proprio atteggiamento, su una versione distratta d’un campione sopraffatto da se stesso e stordito da una veronica, da un tiro a giro che invece diventa un boomerang fatale.
IL MINUTAGGIO
Insigne è sintetizzato in 447 minuti sui 630 disponibili, tra gli attaccanti è quello che dopo Mertens e Callejon ha giocato di più: ne ha saltata una in campionato (con il Brescia) e una in Champions (quella con il Genk), è uscito spesso, quasi sempre, ne ha completate due (guarda un po’, quella di Firenze e quella di Lecce, le gare in cui il morale ha recepito gli effetti benefici dei gol), poi ha finito per ritrovarsi marginale, non emarginato, sconsolato nella sua terra di nessuno e sofferente, c’è da sospettare, per la presenza di Lozano, che non è un avversario ma può diventare un partner. Però dipende da Insigne, che non si è ancora catapultato nel proprio, rilevante, e talvolta decisivo talento, vive una fase di transizione, un calo umanissimo e fisiologico che la Nazionale gli ha aiutato a superare, come riporta il CdS, contro la Grecia e con la qualificazione che alimenta l’autostima e cancella la ferita del Mondiale perduto.
La Redazione