Dedicarsi al calcio non deve per forza voler dire tralasciare altro. Gli studi, per esempio. Guglielmo Stendardo ne parlava al telefono con Giorgio Chiellini. Il binconero gli ricordava che molti calciatori a stento hanno il diploma superiore. Lui, rispetto ai suoi compagni di squadra, è l’unico laureato. Anche Stendardo, 38 anni, agropolese, 237 partite in serie A con Sampdoria, Lazio, Juventus, Lecce e Atalanta, lo è. Lui è un esempio virtuoso di come si possa conciliare lo studio con il calcio professionistico. Giocava e studiava, ma anche viceversa. Oggi è avvocato civilista, ha due studi legali a Milano e Roma, insegna Diritto dello Sport alla Luiss, è procuratore e opinionista Rai.
Stendardo, come è finita la chiacchierata con Chiellini? «Ci siamo detti che la situazione è desolante e che c’è ancora molta strada da fare. Non è solo colpa dei giocatori. Si fa troppo poco, alla maggioranza dei club interessa il risultato sportivo e il riflesso economico».
Invece i club dovrebbero avere la lungimiranza di capire che un calciatore istruito è un valore e una risorsa, non solo in ambito sportivo ma nel contesto di una società civile. «E’ vero, ma servirebbero dirigenti capaci di capire questo. Mentre i calciatori troppo spesso sono mal consigliati, hanno amici che durano il tempo di una carriera e sono circondati da squali che vogliono approfittare del loro status».
Lei come e quando ha avuto la consapevolezza che lo studio era fondamentale nel suo percorso di vita? «Ho avuto il supporto dei miei genitori, che mi hanno sempre spinto a studiare. Mi dicevano: uno su 30.000 diventa calciatore, non illuderti, studia. Ho centrato entrambi i miei obiettivi, e questo mi gratifica, ma ora che la carriera è finita non mi sento completo: ho ancora tanto da imparare, c’è tanto da studiare».
Si è mai sentito una mosca bianca all’interno di un mondo che ha altre priorità rispetto alla cultura? «No, sinceramente no. E comunque credo di non aver fatto nulla di straordinario. Ci sono tanti ragazzi che lavorano e studiano, l’ho fatto anch’io che ho avuto il privilegio di far diventare lavoro la mia passione per il calcio».
Pensa che lo studio abbia penalizzato le sue prestazioni sportive? «Assolutamente no. Lo studio non mi ha tolto niente, anzi mi ha arricchito, perché nei momenti meno belli avevo l’obiettivo di dover superare l’esame. I miei colleghi si concentrano sempre sul presente, sull’oggi, si fanno bastare quello; ma dovrebbero ragionare con prospettive più lunghe. E’ triste pensare che la vita di un calciatore finisce a trentacinque anni e poi si diventa pensionati».
Quali soluzioni indica? «Bisogna investire sulla formazione dei giovani calciatori, non puoi arrivare oltre i trent’anni e non sapere cosa farai dopo. E’ tardi. Devi prepararti, studiare, darti una struttura. I college americani mettono in primo piano la cultura: lo studio va sempre di pari passo con la pratica sportiva. Noi alla Luiss cerchiamo di fare esattamente questo: preparare i calciatori al dopo carriera».
Ma cosa deve scattare dentro un calciatore? «La consapevolezza che quello del calciatore è un mestiere a tempo determinato. Può andarti bene, anche molto bene; ma non basta. La cultura invece ti resta per tutta la vita. Nel momento in cui sei bello, ricco e famoso devi trovare la motivazione – faccio il mio esempio – di studiare per l’esame di Diritto privato, un tomo di mille pagine. Il calcio è importante, ma dopo questi anni ci sarà un traguardo ancora più importante: è quello della vita dopo il calcio».
Fonte: CdS