Dopo solo due giornate di campionato, non sono mancate le polemiche. La “nuova” regola relativa ai falli di mano ha già fatto vittime. Regole, volontarietà, Var…ne parla Paolo Casarin:
Ha visto il rigore di De Ligt? «Sì, lui composto, l’avversario alle spalle, nessun tentativo consapevole di danneggiarlo con la mano. Secondo i crismi della tradizione, un classico gesto involontario».
Ma la volontarietà non conta più nulla. «Con la volontarietà sta morendo la ragionevolezza. Se tu dici all’arbitro che il fallo di mano è sempre rigore, modifichi la relazione tra fallo e punizione. La punizione non può prescindere da un giudizio sulla condotta del calciatore. Se il fatto accidentale subisce la stessa sanzione di un fatto doloso, il calcio non è più ragionevole. In una parola il calcio non è più il calcio».
E l’arbitro non è più l’autore di un giudizio? «L’arbitro sgravato da una responsabilità valutativa non è più arbitro di niente. Diventa puro attuatore passivo di un ordine. Smette di essere colui che, interpretando una regola che considera giusta, la trasmette al calciatore e la impone come simbolo della sportività. Così, senza volontarietà e senza ragionevolezza viene meno anche l’etica».
E il calcio diventa un gioco d’azzardo, cioè di pura casualità o di pura furbizia? «Il calcio è cambiato rapidamente. Fino a trent’anni fa tutto iniziava e finiva tra Germania, Italia, Inghilterra, Francia, Brasile e Argentina. La sua logica era legata alla cultura europea e alla sua proiezione sudamericana. Ed era rimasta quasi intatta fin da quando, alla nascita del calcio nel 1848, erano stati codificati a Cambridge i principi di realismo, giustizia e ragionevolezza come ispiratori delle norme regolamentari. Poi all’inizio degli anni Novanta c’è stata un’accelerazione. Si cominciò con i guardalinee specializzati, poi con i due arbitri, e infine con l’avvento delle tecnologie. Così è irrimediabilmente finita l’idea dell’arbitro che, in mezzo al campo, vede e decide ciò che può vedere e decidere, forte solo della sua autorità. Questo passaggio l’ho vissuto sulla mia pelle alla fine della carriera, quando la televisione iniziava a stabilire a posteriori la qualità di una direzione di gara».
Lo dice con nostalgia? «No, la tecnologia è una cosa che ci fa migliorare. Ma tecnologia vuol dire stabilire se la palla supera la linea, se entra in porta, e ancora se il fuorigioco c’è oppure no. Per il resto è l’arbitro che deve decidere. In Udinese-Milan, alla prima giornata, un’immagine della tv ci racconta di una palla che carambola tra una spalla e un braccio aperto di Samir, un’altra invece mostra che il braccio e il pallone si muovono in due direzioni diverse. Per decidere se è rigore o no l’arbitro deve guardare gli occhi del difensore, perché il calcio è fatto anche di paura, sorpresa, felicità, rabbia. E sono tutte emozioni che parlano, e che fanno questo sport unico».
Vuol dire che il Var ci porta indietro? «No, non sono affatto contrario al Var. Ma bisogna capire che c’è un limite oltre il quale l’arbitro viene delegittimato. Se si tratta di stabilire se il fuorigioco c’è oppure no, ben venga l’occhio elettronico. Ma quando sono a tre metri da uno che colpisce la palla con la mano devo decidere io, e devo decidere se c’è o no la volontarietà».
Ma se le regole cambiano in modo così ottuso per mano di un board internazionale vuol dire che le federazioni nazionali non contano niente? «Temo di sì, anche perché questa menata di abolire la volontarietà circolava già da due o tre anni. E nessuno è riuscito a fermarla».
Ma la qualità degli arbitri è peggiorata? «La percezione di essere delegittimati non aiuta a crescere. E a cambiare. Perché di cambiare si tratta. L’arbitro oggi deve essere un uomo tecnologico, capace di adattarsi ai cambiamenti. Ma deve continuare a sentire la sua responsabilità come unica».
In Italia gli arbitri non parlano mai, vivono dentro un guscio di protezione che, tuttavia, non li protegge dall’enorme pressione che li circonda. Non sarebbe meglio uscire allo scoperto e imparare a difendere e motivare le decisioni? «Sì. Ho pagato personalmente la voglia di parlare. Dopo i Mondiali di Spagna invitai i miei colleghi più giovani a non avere rapporti di contiguità con le società, e presi un anno di squalifica. Poi mi è accaduto un’altra volta. C’è in Italia una prassi corportiva, che ha impedito agli arbitri di assumere consapevolezza. Eppure oggi molti di loro sono persone di qualità, che potrebbero ben difendersi da sè. Sarebbe ora di cambiare regole».
Di fronte ai cori razzisti cosa devono far gli arbitri? Il presidente dell’Aia Nicchi dice che non tocca a loro sospendere le partite, lei che ne pensa? «Gli arbitri devono proteggere i calciatori da qualunque forma di discriminazione. Se uno cerca di rompere le gambe a un altro, l’arbitro interviene. E se un giocatore subisce un’offesa razziale, l’arbitro dà l’unica risposta possibile: ferma il gioco finché non torna il rispetto delle regole. Perché è il custode della sportività e deve avvertire che, offendendo un calciatore in un modo così vergognoso, vengono meno le condizioni etiche minime perché la gara prosegua».