Il buono, il bello, il cattivo: il campionato nel segno dei grandi allenatori tornati dall’estero

Una sana e consapevole libidine fa sì che tu sia già lì, due mesi prima, a leccarti i baffi, pregustando incroci, scontri, scintille e trame. Per i cultori dello spaghetti western una riedizione de “Il buono, il brutto, il cattivo”. Spettacolo garantito. Finale, tutto da scrivere.

“Il buono” Carlo Ancelotti, “il bello” (ma solo per il gioco) Maurizio Sarri e “il cattivo” Antonio Conte.

Tutti contro tutti. Un emiliano mite con un carattere di ferro, il senso del dovere scolpito nella pietra (che prima o poi lasceranno il posto al suo vero trionfo, una terza, quarta e quinta età scandita dai piaceri dell’ozio, della campagna e della lasagna, del Lambrusco e del culatello) al servizio della più volubile tifoseria del Sud. Un napoletano per caso, toscano di adozione, aretino di fatto, negli umori, nel sangue, nel gergo e un salentino tarantolato di stoffa tedesca, acceso giorno e notte, tutto il fuoco della sua terra, al servizio delle due tifoserie del nord più impegnative. Una perché troppo abituata a vincere, l’altra perché traviata da un presentimento troppo acuto della sconfitta.  

 

Unica cosa in comune: hanno lasciato più di mezzo cuore a Londra. Tutti e tre hanno vinto e perso col Chelsea e avuto a che fare con il dispotismo umorale di Roman Abramovic e della sua implacabile emanazione, Marina Granovskaia.  


Caso vuole che a restituire la prospettiva del bello a casa degli Agnelli arrivi il “bello” e bruto Sarri, l’unico dei tre per cui è stato coniato il neologismo “sarrismo”, non esistendo a oggi un “ancelottismo” né un “contismo”, tributo alla riconoscibilità del suo calcio. Burbero, scontroso, lametta pigra, lo sguardo più alla terra che al cielo, la tuta sportiva del sé figlio che fa il verso a quella operaia del padre. Una divisa portata con orgoglio. Quanto di più impresentabile per gli standard dello stile Juve, dove il minimo fuori spartito è vissuto come un affronto personale e istituzionale. E, dunque, la prima domanda: quanto sarà capace Sarri d’ingentilirsi, vale a dire lasciarsi plasmare dal marchio Juve, come hanno fatto tutti i suoi predecessori, a cominciare dal bislacco livornese, e, quando non lo hanno fatto, vedi Gigi Maifredi, subito sfrattati con un calcio sulle terga? Una prima risposta arriva rassicurante, si fa per dire, dallo stesso Sarri, che ha fatto sapere di non essere poi così sarriano, disposto a disfarsi della tuta e a reinventarsi chic, giacca e cravatta da ritorno al passato bancario se la società lo chiede, smoking e papillon se serve. Del resto, il suo test atomico, lo ha superato convivendo tre anni con un potente generatore di stress e di ulcere come Aurelio De Laurentiis.

Seconda domanda: quanto legheranno l’allenatore che legge Bukowski e odia le primedonne con la primadonna Cristiano Ronaldo? Anche qui, indizi alterni. Sarri ha legato eccome con una star come Higuain, ma ha mostrato crepe, sofferenze e insofferenze con altre star come Hazard e David Luiz.

Terza domanda: quanto riuscirà l’uomo a farsi accettare dall’ambiente, che non lo ha accolto benissimo (eufemismo)? Fu così con il “maiale” Ancelotti che ne soffrì parecchio senza mai dirlo e fu così con il “milanista” Allegri che se l’è fatto abbastanza scivolare addosso. Troppi precedenti fanno pensare che la pazienza non sia una virtù dell’irascibile Maurizio Sarri. Forse vivremo e forse vedremo.

Quarta e ultima domanda: quanto tempo sarà concesso all’aretino per ammaestrare il suo per niente scontato calcio?
Detto e considerato, ecco la strepitosa fantasia che ci galvanizza il velopendulo: Maurizio Sarri che riesce a regalare lo scudetto al “suo” Napoli dalla panchina della Juve. Ovvero, fallando la sua prima stagione in bianconero, per mille possibili e comprensibile ragioni. Una specie di regalo traslato, fatto sotto mentite spoglie. L’altra fantasia notevole: Sarri che vince la Champions al suo primo colpo, il che farebbe di Max Allegri un angosciato a vita, non al punto da gettarsi dallo scoglio di casa, non è il tipo, considerando tre cose, la femmina che gli sta al fianco, il conto in banca e il carattere da me ne infischio. Eccitante, direi, immaginare anche il “vecchio coglione” Sarri principale fornitore di talento calcistico per il suo amico, il “finocchio” Mancini. Comunque vada, Sarri ha tutto per immaginarsi un uomo felice, ammesso che sappia felicitarsi, rimembrando (ha una buona e ostinata memoria) a quando, non molto tempo fa, portava la sua tuta nei campi d’eccellenza, si fa per dire, esultando come un matto per una coppa vinta di serie “D”. «Sono un uomo fortunato», ripete sempre lo spinone, anche quando ha l’umore traverso e la bile in fiamme, ripensando ai tempi del Tegoleto, del Sansovino e della Sangiovannese.


In quanto al “buono”

 

Carletto Ancelotti resta, con tutto il coté mondano e milionario conquistato sul campo, un contadino pieno di grazia che ha imparato tra Roma, Milano, Parigi, Londra e Madrid, a stare al mondo. Tanto ha imparato da fare breccia nel cuore ruvido, ma sempre pronto a farsi sedurre dalle sue star, di Aurelio. Carletto è il suo Scorsese in panchina anche se, nella sua versione più disincarnata, somiglia a David Lynch, in attesa di somigliare a Brando. Infranto il sogno di prolungare la sua vita e quella della sua compagna a Londra, magari ricalcando le terga sfrattate di Arsène Wenger, non ha fatto una piega. S’è infilato in bocca una cicca gommosa e ha masticato intenso, nemmeno tanto amaro. S’è travestito da James Bond alla presentazione di Napoli, cosa che l’incazzoso Sarri piuttosto si fa impalare. Carletto, invece, si fa amare. È la sua virtù. Napoli era una gatta molto buia da pelare. Risultato: nessun trofeo (da quelle parti ci hanno fatto il callo, prima e dopo la sbornia Maradona) ma tanto bel calcio, una Champions qua e là ammirevole e un secondo posto mai in discussione. Ancelotti e il suo clan hanno rigenerato in fretta una squadra prosciugata dalle fatiche ma anche dalla dedizione per Sarri. Piccoli e saggi aggiustamenti, il suo Napoli parte almeno alla pari con la ribaltata Juve. Dategli lo scudetto e diventerà il Bambin Gesù di tutti i presepi di Gregorio Armeno, esibito al Maschio Angioino e portato in processione con tutta la numerosa famiglia dal San Paolo a Posillipo.


In quanto al “cattivo”

Antonio Conte non si discute. L’uomo non può fare a meno di vincere o comunque di battersi per farlo. Un ossesso elementare e monocorde, come tutti gli ossessi. Era già così da pischello, quando fu venduto alle giovanili del Lecce per otto palloni di cuoio, di cui tre sgonfi, fin lì allenato e torturato dal padre che gli ha insegnato cosa vuol dire portare il nome dei Conte. Diventò in fretta, da mediano nel calcio e nella vita, l’uomo degli otto polmoni, di cui tre di scorta, pupillo di tutti i mister di qualunque ideologia. Iniziava a correre il primo minuto e si fermava solo dopo novanta, ma solo perché così si usa. Il suo concetto guida: la vita è conquista quotidiana e la conquista quotidiana è lavoro. Non c’è vittoria senza fatica. Non c’è gioia che non sia preceduta dalla disfatta dei corpi. Non è un caso se Conte chiama Vittoria la sua gioia più grande, sua figlia. Meno che mai un caso è se Antonio, dopo tutta la gavetta da manuale, prima menando calcio e poi insegnandolo, è arrivato al tetto del mondo. Dopo aver rigenerato la Juventus più depressa di sempre e diventato poi re a Londra in blue. Lui, uomo del sud, che più sud non si può. Conte non si abbatte, Conte non perde mai un colpo nemmeno quando perde il pelo, quando si tratta di farsi ricrescere una zazzera sansonesca per coprire il disastro alopecico. È quel genere di allenatore a sembianza di martello che pianta chiodi nella testa dei suoi giocatori. L’Inter sarà la sua sfida estrema. Ci arriva nel peggiore dei modi, da ex juventino, in un ambiente tossico per definizione e dal conclamato autolesionismo. Dovesse farcela anche qui, tra lui e la beatificazione ci sarà solo presentarsi a Trigoria e riportare lo scudetto alla Roma. 

Fonte: Cds

 

 

 

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