Tutto Ancelotti a 360 gradi: “Mio figlio Davide? Voce critica e della confidenza”

Il tecnico del Napoli tra passato e futuro

Oggi il calcio festeggia il compleanno di uno dei suoi protagonisti più amati. Che dalle vacanze in Canada si racconta:

Le quattro del pomeriggio in Italia, Carlo Ancelotti è sveglio da un’ora, è il suo ultimo giorno da cinquantanovenne. «Mi sento alla grande, qui mi restauro. Bici, piscina, lunghe camminate. Riesci a vedere quella striscia di terra laggiù in fondo? Quella è Vancouver, siamo a un quarto d’ora di macchina. Sì, sto alla grande – ripete -, a tavola mi trattengo, ho imparato a farlo, me lo sono imposto il secondo anno a Londra quando stabilii il record del peso, e non si trattava di un lancio». 

Spiegati meglio, anche se temo di aver capito. «La bilancia segnò 101 chili e settecento, luglio 2010. Adesso sono 87, non seguo un regime, rinuncio. Togliendo una quindicina di chili sono riuscito a evitare almeno temporaneamente le protesi alle ginocchia. Hanno resistito a sei interventi, crociati, menisco, uno strazio. Quando mi alzo dal letto le sento scrocchiare paurosamente. Tipico dei calciatori della mia epoca e di quelle precedenti. Anche Capello ha le protesi, e Ottavio Bianchi. Carichi pesanti, balzi, zero prevenzione, ti pagavano soltanto se giocavi e allora scendevi in campo anche quando avresti fatto meglio a restare a letto».

Sei uno che guarda sempre avanti, che si aggiorna costantemente, tuttavia i sessanta sono un traguardo che autorizza qualche bilancio. «Non li amo, i bilanci, conservo i ricordi, le mie figure fondamentali».

Da chi partiamo? «Da Liedholm, che si prese cura di me, mi aveva voluto lui, mi insegnò un sacco di cose, anche a stare al mondo. Prima di lui Giorgio Visconti, il mio allenatore negli allievi del Parma, e Bruno Mora. I suoi racconti uno spettacolo, diciamo che fuori dal campo era un discoletto, ma sul campo un maestro, mi insegnò a muovermi, a fare delle scelte. Mi raccontò anche che per giocare titolare menò di brutto un compagno di squadra in allenamento, e lo ruppe. Visconti era stato un buon centrocampista nel Bologna. Tra i giocatori mi viene in mente Mongardi, ex dell’Atalanta, della Spal. Tutta gente alla quale devo tanto. Fino ad Arrigo, il numero uno. Righe ci ha aperto gli occhi, è stato un innovatore, in particolare nella preparazione. Non mollava mai e ancora oggi non molla, è sempre prodigo di consigli, dopo ogni partita arriva la sua telefonata. “Carlo, l’esterno stava un po’ troppo largo”. Ma l’esterno era Ronaldo, Arrigo, lascialo largo, lascialo stare dov’è. Per lui non esiste Ronaldo o un altro, un esterno è un esterno e deve rispettare il copione».

Liedholm e Sacchi, due maestri agli opposti. «Nella gestione della pressione, certamente. Liedholm era sempre calmo, imperturbabile, affrontava le situazioni con la serenità e risolveva le questioni con l’ironia. In quattro o cinque anni l’avrò visto arrabbiato un paio di volte. Arrigo ha invece ceduto alla tensione, e per sua stessa ammissione. Io ho preso da Liedholm, gli anni e le esperienze mi hanno reso più consapevole».

Il calcio che frequenti da oltre quarant’anni riesce ancora a sorprenderti? «Il calcio cambia in continuazione, non puoi mai fermarti. Quest’anno abbiamo fatto cose nuove, penso alla costruzione da dietro con tre o con due centrali. Ho uno staff giovane che mi tiene vivo e mantiene aggiornato».

Tuo figlio Davide che ruolo ha? «È la voce critica, forse anche per via della confidenza. Lo ascolto, ascolto tutti e traggo le conclusioni».

Toglimi una curiosità: perché hai investito e insistito sul 4-4-2? «Perché è un sistema che permette di coprire molto meglio il campo, migliora in prevalenza l’aspetto difensivo. A livello offensivo non te lo so dire: a volte abbiamo fatto il 3-1-5-1, altre il 2-3-4-1. Con il 4-3-3 hai poca densità offensiva centralmente, spesso il centravanti si trova in uno contro 2… Fino a dicembre la squadra è andata benissimo, se in Champions non avessimo trovato il Liverpool nel girone saremmo passati tranquillamente. Alla ripresa qualcuno è calato e soltanto nella fase finale ci siamo ritrovati. Il primo anno è stato di transizione».

Gli sbandamenti difensivi non sono mancati, però. Non avresti fatto meglio a non abbandonare la linea di Sarri ben assimilata dai quattro dietro? «Non è mancata la disponibilità dei giocatori al cambiamento. Non trascurare il fatto che sulla difesa ha pesato molto la lunga assenza di Albiol».

Come giudichi l’atteggiamento di numerosi tifosi del Napoli che considerano un tradimento il passaggio di Sarri alla Juve? «Il legame tra Sarri e i napoletani è stato molto forte, così come la sua adesione al progetto e alla napoletanità. E’ comprensibile che qualcuno lo viva male, ma Sarri è un professionista e a volte il mestiere ti porta a fare scelte che disorientano».

Vedi Capello dalla Roma alla Juve, Ronaldo dall’Inter al Milan. «Il tempo aggiusta tutto».

In ritiro avevi detto: “Mica sono qui a pettinare le bambole”. Da agosto chi pettinerai?  «La fionda è tirata e pronta a colpire».

La tua partita della vita? «Tante, ma te ne indico due: Milan-Manchester e la finale di Istanbul».

La finale col Liverpool? E’ una battuta? «La prima parte. Fummo fantastici. Nella ripresa ci disunimmo ma anche sul 3-3 sbagliammo un sacco di gol. Erano sulle gambe, molti di loro con i crampi, le provarono tutte pur di arrivare ai rigori».

Quando l’hai digerita, se ci sei riuscito? «L’ho rivista tre settimane fa quando l’ha data Sky: una sola volta in quattordici anni».

E le peggiori? «Bologna-Milan il primo anno. Distrussi lo spogliatoio, giocammo malissimo rischiando di compromettere la qualificazione alla Champions. E a Evian, in coppa di Francia, col Psg. Mi incazzai di brutto con Verratti che si era fatto espellere. Diedi un calcio a un cartone che finì per centrare la testa di Ibrahimovic. “Mister, ce l’hai con me?” No, gli risposi, ce l’ho con un altro. E poi i primi venti minuti con l’Arsenal a Londra, quest’anno. Inspiegabili».

Nomi, figure, storie. Salto Berlusconi e passo a Galliani. «Il più forte di tutti. Con lui ho avuto anche discussioni violente, ma è stato fondamentale in ogni momento della mia avventura al Milan. Protezione, mediazione, considerazione. Per un allenatore il dirigente ideale, inarrivabile».

E con Moggi? «Un grande dirigente. Alla Juve ho imparato una cosa: il rispetto dei ruoli. La Juve ti fa sentire importantissimo e centrale fino all’ultimo giorno. Non ti fa mai mancare la fiducia, per un tecnico è fondamentale. La società è lo scudo protettivo irrinunciabile, se non tiene meglio lasciarsi subito. Al Bayern è mancato il dirigente di mezzo, il filtro. Lì il rapporto era diretto col presidente. Al Napoli Giuntoli non si fa mai mancare, e se non c’è lui c’è Pompilio. Giuntoli ha una preparazione a prova di quiz, sa tutto di tutti. Un giorno per metterlo alla prova gli chiesi di un centrocampista turco di terza serie. Beh, mi spiegò anche quante volte andava in bagno».

Sessant’anni in quattro nomi. «Solo quattro? Conti, Pruzzo, Maldini, Gattuso, Filippo Galli, Donadoni. Bruno Conti era il mio compagno di stanza, a quei tempi non c’era internet, i rapporti si sviluppavano naturalmente, si cementava il gruppo, il ritiro era uno momento di aggregazione. Oggi in ritiro i giocatori si isolano, stanno da soli. Noi alla Roma ci andavamo il mercoledì, ricordi? Se giocavamo a Torino o Milano, Liedholm ci faceva viaggiare col treno di notte… Io i ritiri li ho praticamente aboliti».

Sessant’anni, quarantatré di calcio e la fionda è ancora tiratissima.

La Redazione

 

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