Del calciatore dipinto da De Gregori, Antonio Capone lo riconoscevi dalla fantasia. Quella che metteva in campo, ma non solo. Fantasista a tutto tondo, perché anche dopo aver smesso ha saputo reinventarsi alla grande, continuando a dare spettacolo: dal campo di calcio al palco di teatro. Una vita sempre sotto i riflettori. Mai banale, con il guizzo dell’imprevedibilità sempre dietro l’angolo.
Quindi dopo il calcio si è dedicato alla recitazione? «Ho fatto prima il corso allenatori e ho allenato la squadra in Interregionale vicino Ferrara».
E poi? «Poi mi sono dedicato al teatro per 8 anni».
Come nasce l’idea? «Mi è sempre piaciuto cantare e recitare. Ero specializzato nelle imitazioni. E a Ferrara, dopo aver giocato nelle Spal, ho trovato una compagnia che metteva in scena spettacoli di satira sui personaggi storici ferraresi. Il tutto per beneficenza».
Dove ha studiato? «Da nessuna parte. Sono autodidatta. Diciamo che sono sempre stato un tipo estroso».
Ma ci dica di più «Gli spettacoli si tenevano un paio di volte all’anno e andavamo in scena per una settimana».
Come ha iniziato? «Frequentavo lo stesso locale di un regista ferrarese molto bravo. Una sera nella quale si cantava e si recitava è rimasto colpito dalle mie qualità e mi ha proposto di entrare a far parte della compagnia che metteva in scena Il Lodovico di Ferrara: lo spettacolo si chiamava così».
E il seguito? «Andavamo fortissimo».
Davvero? «A Ferrara ci sono due teatri: il Nuovo e il Comunale. Una sera c’era Michele Placido che recitava al Comunale mentre noi eravamo al Nuovo. Dopo la rappresentazione ci si vedeva tutti allo stesso ristorante e ricordo che quella volta venne anche lui. Si avvicinò al nostro tavolo e mi disse: Cavolo, da me c’erano 200 persone e da voi 700. Complimenti».
Il suo cavallo di battaglia? «Mah, difficile dirlo. Ho interpretato tanti ruoli: Sgarbi, Bossi, Anna Magnani, anche Totò. E poi imitavo benissimo Celentano. Ai nostri spettacoli assistevano anche molti grandi come la moglie di Fellini o lo stesso Vittorio Sgarbi».
E poi c’era il calcio. Faceva spettacolo anche nello spogliatoio? «Anche lì ero un po’ showman. Dovunque andavo mi chiedevano di cantare o fare imitazioni. Facevo un po’ di tutti. I miei preferiti erano Castellini, Krol e Savoldi. Alle volte anche l’allenatore Gianni di Marzio».
A proposito, è stato proprio Di Marzio a lanciarla in serie A. «L’esordio ha rappresentato molto per me perché ho debuttato contro l’Inter nel lontano 1977. In quel Napoli c’erano già Savoldi e Chiarugi come titolari ma dopo poco presi il posto di Chiarugi e giocai tutto il campionato».
Il primo anno in azzurro è stato il più bello? «E infatti fui anche convocato nei 40 che dovevano partire per il mondiale in Argentina nel 1978».
Come mai non partì? «Purtroppo c’era il blocco della Juve e Savoldi ed io uscimmo dalla lista definitiva»
Dopo cosa è successo? «L’anno successivo doveva essere quello della mia consacrazione ma mi ruppi il crociato durante la prima amichevole a Napoli. Peccato, perché sarei potuto entrare nel gruppo dell’Italia per l’Europeo del 1980».
Nel suo primo anno a Napoli è rimasta storica la sua partita a San Siro contro il Milan: perché? «Dopo un quarto d’ora Liedholm dovette cambiare la marcatura su di me, perché ero imprendibile. Alla fine della partita ne aveva cambiate addirittura tre. Prima Collovati, poi Maldera e infine Morini che mi fece anche il fallo da rigore segnato poi da Savoldi. Forse manco per tenere Maradona hanno cambiato tre marcature».
Cosa le era successo quella sera? «Diciamo che innanzitutto ero particolarmente ispirato e quando accadeva ciò ero immarcabile. E poi prima della partita Gianni Di Marzio mi aveva caricato moltissimo».
In che modo? «Mi disse: Oggi giochi alla scala del Calcio e ti marcherà un nazionale come Collovati: vedi che vuoi fare. Quando venivo stimolato tiravo fuori il meglio: sono sempre stato un tipo estroso».
E poi? «Alla fine di quella partita Rivera mi venne a stringere la mano e prima della gara di ritorno venne bussare alla porta del nostro spogliatoio per salutarmi anche al San Paolo. Ricordo che il giorno dopo la partita di Milano i giornali si divertirono molto a titolare Undici polli per un Cap(p)one».
Come mai durante quel periodo la chiamavano il brasiliano del Napoli? «Sicuramente per via della mia carnagione un po’ olivastra e poi per le movenze che avevo in campo. Anche se mi manca un po’ la forza fisica e poi alle volte esageravo nel dribbling. Nel complesso ho fatto fare tanti gol a Savoldi. Ero più un assistman».
Ha dei rimpianti? «Diciamo che ero il classico giocatore croce e delizia, genio e sregolatezza. Il direttore sportivo Vitale mi diceva sempre: Se stai in vena vinci da solo anche una finale mondiale. Ma poi ci sono stati tanti giorni in cui non mi girava».
Come mai? «Magari il tempo non mi piaceva, oppure andavo in campo e mi bisticciavo con l’arbitro e con chi mi marcava. Probabilmente nella mia carriera sono stato un po’ frenato dal carattere e dalla scarsa voglia di allenarmi. L’unico rimpianto è quello di non aver fatto una vita da calciatore al 100%. Perché mi piaceva divertirmi. Ecco, diciamo che non mi privavo tanto. A 22-25 anni è l’età più bella e io non volevo perdermi nulla».
Per altro lei è stato l’unico ad aver giocato con le maglie di Napoli, Avellino e Salernitana. «Mi sono trovato in mezzo ai fuochi ma ho sempre ricevuto tantissimo affetto da parte dei tifosi delle mie ex squadre».
E oggi che vive a Salerno come sta vedendo una piazza così in difficoltà dal punto di vista calcistico? «I tifosi sono molto scoraggiati per quello che è successo. La squadra ha portato a casa 0 punti nelle ultime 6 partite, quando per salvarsi ne sarebbe bastato uno. C’è molta tensione, ma speriamo che tutto possa andare per il verso giusto. Ho visto una sola partita allo stadio e in quell’occasione diedi subito un giudizio molto negativo. Salerno è una delle piazze più difficili d’Italia».
Fonte: Il Mattino