Corradini: “Ero io il termometro delle condizioni di Maradona!”

Non vive di ricordi, ma Giancarlo Corradini ha un legame fortissimo con il passato. In particolare con quello che lo ha visto protagonista a Napoli. Stagione 1988-89. Quella della svolta, professionale e personale: perché in quel magico 1989 diventa papà per la prima volta ed esattamente il 17 maggio di 30 anni fa solleva al cielo di Stoccarda la coppa Uefa. Non male. Ed è per questo che pur pensando al futuro e a una vita da allenatore che è in continuo divenire, si guarda alle spalle e ancora sorride ripensando a quegli indelebili ricordi a tinte azzurre.
Dopo il calcio cosa ha iniziato a fare? «L’allenatore, ma in questo momento sono fermo. Perché non è facile trovare una squadra dal progetto che mi convince. Quando ho smesso mi è sempre piaciuto il calcio e non ho mai pensato di fare altro».
Quindi allenatore e basta? «Il mio bagaglio da calciatore mi permetteva e mi permette di insegnare qualcosa. E non faccio molta differenza tra settore giovanile o professionisti».
Nella sua carriera da allenatore fino ad oggi è stato seduto anche sulla panchina della Juventus e su quella del Watford: come è arrivata questa chiamata? «Zola mi ha chiamato per fargli da vice. In realtà era un progetto che avevamo già da alcuni mesi prima quando stava per accordarsi con la Lazio e allora quando è arrivata la chiamata da Watford si è ricordato di me».
Un’opportunità nata proprio grazie alla vostra esperienza comune a Napoli? «La nostra amicizia è nata in quegli anni».
Come? «Merito delle nostre mogli».
Davvero? «Come spesso accade le amicizie tra gli uomini nascono quando a trovarsi bene tra loro sono le rispettive donne. Se le donne non sono in sintonia finisci per frequentarti ma meno».
Che ricordi ha della sua esperienza a Londra? «In quel periodo vivevo nel Kent accanto a casa di Gianfranco, ma ho imparato a conoscere bene Londra con mio figlio Cristiano che oggi lavora lì nella sicurezza informatica. Ha 30 anni».
Se i conti non sono sbagliati ha la stessa età della coppa Uefa vinta con il Napoli «Infatti credo sia stato l’anno più bello della mia vita. Ho avuto grosse soddisfazioni personali e professionali».
Iniziamo con quelle personali. «Che poi sono legate anche a quelle professionali».
Perché? «Il ricordo più bello della stagione è quello della gara di ritorno contro la Juve. Il lunedì di quella settimana è nato mio figlio. Bianchi mi diede la possibilità di assistere al parto a Modena e così saltai una giornata di allenamento. Il mercoledì si doveva scendere in campo e io avevo una gran voglia di rifarmi dopo l’autorete della gara di andata. Vincemmo e volammo in finale: ecco perché quella è stata la settimana più bella della mia vita».
Soddisfazioni destinate a durare anche più a lungo. «E pensare che nel 1989 ebbi un po’ di difficoltà nell’inserimento in squadra. Perché le aspettative del Napoli erano alte e io venivo dal Torino dove si lottava per obiettivi più modesti».
Eppure «Arrivammo secondi in campionato, secondi in Coppa Italia e vincemmo la coppa Uefa. Come se non bastasse io sono stato tra i protagonisti della stagione visto che ho fatto record di presenze assolute. Praticamente quell’anno saltai appena due gare».
Tra queste non c’era la finale di ritorno contro lo Stoccarda: che ricordi ha di quella partita? «Avevamo in mente le difficoltà della gara di andata: lo Stoccarda ci aveva creato qualche problema, ma al ritorno andò tutto per il verso giusto. Sul 3-1 realizzammo che la coppa sarebbe finita tra le nostre mani». 
Che compiti aveva in quella gara? «Dovevo marcare Gaudino. Ma tra noi e loro c’era un divario tecnico enorme. D’altra parte oggi si ricordano molto di più i nostri giocatori che quelli dello Stoccarda».
Con voi c’era un certo Maradona: per un difensore che fortuna era averlo in squadra con sé? «Se Diego stava bene era immarcabile. Io lo capivo subito come avrebbe giocato la domenica: in settimana, se stava in forma, mi saltava sistematicamente facendomi cadere a terra. Diciamo che io ero un po’ il termometro delle sue condizioni. Per gli avversari era un tormento perché aveva dei tempi imprevedibili nei movimenti». 
Ha detto che Bianchi le concesse il permesso di assistere al parto di sua moglie Lorena, che tipo era come allenatore? «Era uno che ti dava grandi responsabilità. Pur rimanendo un tipo positivo e molto tranquillo. Anche nella settimana che portava alla finale di ritorno non ha mai perso la calma. Conosceva l’ambiente Napoli e i tifosi. Sapeva come muoversi. Aveva già vinto ed era in una posizione privilegiata».
Dopo Napoli, però, lei è uscito dai radar: come mai? «Finii per giocare in serie D con il Collecchio».
Come ci è finito lì? «Il Napoli aveva bisogno di capitalizzare con il mio cartellino e per questo mi diedero al Parma facendomi entrare nello scambio per Rincon. A Parma, però, non ho mai giocato perché fui girato al Collecchio che era una società satellite di Tanzi».
Non poteva trovare un’altra sistemazione? «Ero ancora innamorato del calcio e avrei giocato ovunque. Il pallone gira sempre nel sangue».
Come è andata lì? «Avevamo una buona squadra. L’allenatore era Cuoghi, ma non riuscimmo a vincere il campionato di serie D».
E allora torniamo al presente: che tipo di papà è? «Molto tranquillo. Non ho mai imposto ai miei figli di giocare a calcio. Anzi. Cristiano ha giocato anche nel settore giovanile della Juve, ma ha smesso a 21 anni. Il più piccolo, che si chiama Leonardo, gioca a basket: ha giocato anche in serie C gold. Ha ancora voglia. La passione per questo sport gli è venuta quando eravamo a Londra».

Fonte: Il Mattino

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