Fabio Cannavaro: “Ancelotti per me resta un faro. Insigne? Resta a Napoli”

L'ex Pallone d'Oro in un'intervista al CdS

Nella sua lunga intervista rilasciata al Corriere dello Sport, da napoletano a napoletano Fabio Cannavaro parla di il Napoli, Lorenzo Insigne e l’Italia col suo calcio “malato” in una lunga e interessante rilasciata al Corriere dello Sport:

Cannavaro, visto da dentro un Pallone d’Oro, il calcio cosa le sembra? «Che gli inglesi sono i più bravi e i più organizzati, non solo i più ricchi. Hanno una visione d’insieme che vanno ad aggiungere ad una atmosfera e a un ritmo agonistico utili a fare la differenza».

Però stavolta hanno esagerato e si sono presi l’Europa. «Perché hanno importato tecnici tra i più evoluti al mondo, diversi ma strategici per il decollo: Guardiola, Klopp, Pochettino, Sarri ed Emery hanno favorito questa esplosione, fondendo due anime, quella storica del football – fatta di intensità quasi impareggiabile – con i dettami tattici. Ora la Premier viaggia a velocità impressionate rispetto a quella della serie A ma pure della Spagna, della Francia e, in certi casi, della Bundesliga».

Perché, invece, qui da noi vince sempre la Juventus? «E’ più avanti rispetto al Paese che la circonda. E’ vero, ha un budget, ma se lo è costruito nel tempo, attraverso una politica anche di investimenti, con i giovani della squadra B e poi con le donne. Fa le cose nella maniera appropriata e poi, quando sei lì, capisci quale sia la sua anima e quale la differenza tra giocare e vincere».

Eppure adesso stiamo qui a cercare di capire se Allegri resta o va via e, onestamente, sa di paradosso. «Io dico che rimane e mi chiedo anche come si possa, eventualmente, mettere in discussione un allenatore che ti ha dato cinque scudetti e ne ha vinti sei nella sua carriera. Capisco la ferita della Champions, ma quella è di tutti, del Manchester di Guardiola e del Barcellona di Messi, per esempio. La fortuna ha un suo ruolo, nel momento-chiave, e se ci arrivi con una serie di infortuni o con qualcuno sotto tono, può succedere che anche una grande favorita si ritrovi eliminata».

Sono state semifinali meravigliose. «Ma, in una settimana, abbiamo visto la fotografia di ciò che gira intorno al calcio, attraverso i cosiddetti professori che prima hanno esaltato Messi e l’Ajax, giustamente, e poi li hanno lapidati. Serve equilibrio nei giudizi, la Champions è bellissima ma può diventare folle, da una gara all’altra: Zidane ne ha vinte tre e lo ha fatto con una intelligenza gigantesca. Sapeva cosa andava a giocarsi e in quali condizioni, ha gestito dall’alto della sue conoscenze».

Il quadro, almeno in Italia, sembra definito: siamo messi male….? «Il gap mi pare rilevante però qualcosa si è mosso alle sue spalle».

Andiamo per ordine… il Napoli. «In Champions non è mai riuscito ad avere un ruolo, ma è comprensibile, ed esserci arrivato è un risultato. In campionato, resta il rimpianto della stagione scorsa, quella in cui con Sarri lo scudetto è stato vicino, e non era semplice superare quella amarezza. Ma si poteva avvicinare un po’ alla Juventus».

Ancelotti per lei è un faro. «E tale rimane. L’eredità di una squadra che aveva fatto innamorare non poteva che essere complicata. Io non avrei cambiato il sistema di gioco, ma capisco che avendo acquistato alcuni calciatori con caratteristiche diverse e poi avendo perso Hamsik, sia stato indotto a intervenire. Ma la garanzia è lui».

E Insigne, poverino, si è ritrovato nella tormenta. «Il problema non è Insigne ma questa tendenza a cercare un capro espiatorio al primo risultato insoddisfacente. Qui vogliono vincere tutti e sempre e non si può, perché a triofare è sempre uno solo. E’ il destino dei profeti in patria o di chi cerca di esserlo. E quando si perde, parte la caccia al colpevole, inevitabilmente individuato conn il proprio concittadino».  


Lei cosa farebbe al suo posto? «Premessa: il mercato non lo fanno i giocatori, che a volte certe decisioni le subiscono. Ma io, fossi in Insigne, resterei e senza avere alcun dubbio: quella maglia, quella città, meritano di avere un simbolo. Lui sa che sarà dura, che basterà inciampare per riprovare certe sensazioni amarognole, ma ormai ci sarà abituato. E’ giovane, stia a casa sua, dove c’è anche chi gli vuole bene, e diventi il riferimento».

Momento difficile per i presidenti: contestano a Roma, a Firenze e anche a Napoli. «Ma sono storie differenti. Ognuno, oggi, può avere una identità che non può ignorare la consistenza economica: probabilmente a Roma l’irritazione è scatenata dalla consapevolezza di aver perso un’occasione, perché in questa squadra c’erano calciatori di livello e sono stati ceduti in nome delle esigenze di bilancio. Il calcio è mutato, prima si spendeva e pazienza se poi si falliva. Ora si guardano i conti e mi sembra corretto».  

Niente facile neppure per il suo amico Gattuso. «Sul quale va fatto un discorso profondo e serio: nessuno, e dico nessuno, ha i meriti che vanno riconosciuti a Rino. Ci sono risultati e gioco in questo Milan, che sta lottando per un posto in Champions. Ma apro i giornali, ascolto le tv e vedo che viene massacrato. Glielo ho detto al telefono: deve cambiare, non deve prendersi le responsabilità, come fa spesso, ma sottolineare l’impegno che ci mette e quello che sta riuscendo ad ottenere».

La Giovane Italia di Mancini cosa le suggerisce? «Roberto mi sta entusiasmando, per come si è posto, per la sua idea di calcio, per la ricerca di un percorso, per la fiducia accordata ai giovani. Abbiamo di nuovo un futuro, con Chiesa e Bernardeschi, con Zaniolo e due portieri che rispondono ai nomi di Donnarumma e Meret».

Ma la strada è lunga. «Abbiamo buttato via una generazione ma stiamo recuperando, perché arrivano i risultati anche con l’Under 17 e l’Under 18, dove c’è materiale tecnico di livello e di prospettiva. E poi le scelte di Mancini suggeriscono un indirizzo anche ai tecnici dei club: a vent’anni non si lasciano in panchina i giocatori buoni, si lanciano in campo. Ora possiamo essere ottimisti, ne abbiamo facoltà, c’è una proposta, quella del Ct, interessante e la formazione di un gruppo che può diventare trascinante. E non mettiamoci a fare confronti con Brasile o Germania, lasciamoli crescere questi ragazzi».

Lei, come Allegri, sostiene che sia colpa dei settori giovanili. «Dove si pensa a insegnare la tattica, mentre invece serve la libertà e, semmai, l’istruzione tecnica: il palleggio, il controllo orientato, il dribbling. Io ho preso conoscenza dei sistemi quando avevo ventidue anni e Ancelotti mi introdusse dalla marcatura a uomo alla zona. Ma prima, era sempre e soltanto la bellezza del gesto».

Lei ha un debole per Sarri, possiamo dirlo? «E a chi non piace? Vedi giocare la sua squadra, penso al suo Napoli, e rimani incantato. Ma a me piace, tanto per restare in un tema ampio, anche Ancelotti, il suo modo di inseguire il risultato attraverso fasi di gioco che trasmettono identità».

Siamo nell’epoca del Var… «E seguo le polemiche, che appartengono anche al mio mondo, perché pure qui in Cina a volte ci sono interpretazioni diverse, soprattutto sul fallo di mano».

Non ce l’ha fatta a resistere con il doppio incarico, Selezionatore e allenatore. «Io al Guangzhou faccio il manager e le giornate durano ventiquattrore ore: non volevo sottrarre tempo al progetto del club. Puntiamo sui giovani, vanno seguiti ed aiutati. Avrei dovuto rinunciare a qualcosa, per esempio allenare quotidianamente».

Ma quando la rivedremo in Italia?
«Al termine di questa esperienza, che per me è fantastica dal punto di vista calcistico ed umano. Ho un contratto triennale». 

La Redazione

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