Con la Super Champions si cancellano i sogni di chi ama il calcio

No, non ci saranno più campi polverosi di periferia né scuole calcio di paese da cui spiccare il volo, non ci saranno sogni e sacrifici e talenti capaci di esplodere, ai tempi del calcio ridotto a uno show del sabato sera, esibizione patinata di calciatori-superstar in favore di telecamere (profumatamente paganti) organizzata dentro stadi sempre più simili a salotti. Un circo? Magari. Lo sport popolare per eccellenza ridotto a manifestazione classista, i ricchi sempre più ricchi da una parte, tutti gli altri dall’altra: senza ricambio, senza speranze di mobilità «verticale», due circuiti destinati a diventare autoreferenziali, e a lungo andare asfittici. È evidente, è lapalissiano che andrà a finire così, se davvero la riforma immaginata dall’Eca andrà in porto. L’Eca, questa Associazione europea dei club presieduta da Andrea Agnelli (e già questo dettaglio di una presidenza juventina ci suggerisce le dimensioni della iattura, a noi napoletani che certe cose le capiamo prima degli altri) questo cerchio magico che di punto in bianco si è impadronito della scena calcistica con la chiara intenzione di non abbandonarla più. L’Eca più forte o almeno più temuta delle Leghe nazionali, delle Federazioni e persino dell’Uefa: a volte l’impensabile diventa possibile, è il potere dei soldi bellezza, è l’evoluzione tecnologica che tutto mangia e trasforma e risputa. Sotto forme diverse, sconosciute e non sempre migliori soltanto perché nuove.
Noi tutto questo lo riusciamo a capire, noi tifosi della domenica che dagli spalti quasi senza accorgercene ci siamo trasferiti in massa davanti alle televisioni, per poi diventare dopo qualche anno popolo ribelle, il popolo che straccia (o più spesso minaccia di stracciare) gli abbonamenti alle piattaforme delle telecronache a senso unico, delle commentatrici tutte squadra, famiglia e putipù, e degli accordi commerciali – a nostre spese e loro vantaggio – con altri neonati e indecrittabili canali satellitari. Lo abbiamo capito da tempo che siamo un affare, noi tifosi innamorati delle nostre squadre, un affare tanto più grosso quanto più forte è il nostro amore: perché un innamorato è pronto a fare ogni sacrificio anche economico, a credere ad ogni fola pur di continuare a sognare. Ma se l’oggetto del nostro sogno ci viene sottratto, se ci si scava intorno una trincea oltre la quale non ci sarà mai concesso andare, allora qua non muore soltanto il sogno, muore anche il tifoso, e muore ovviamente lo sport. Senza più una zona Champions da conquistare, senza neanche uno scudetto che valga la pena di strappare, senza un rivale vero da superare, che stimoli potrà mai dare la Serie A, che sfizio ci sarà nella promozione dalla B, quali pagine di storia dello sport, storia vera, fatta di sudore e fatica, di talento e dedizione, potranno mai più essere scritte nel calcio di tutta Europa? Quali sogni vivranno, quali stimoli avranno i ragazzini, anche quelli più talentuosi, quando capiranno che oltre un certo tetto non potranno salire mai, solo perché sono nati dalla parte sbagliata della trincea? A meno che, ovviamente, non siano i nuovi Maradona o Ronaldo, ma chissà se ci saranno più allenatori in grado di riconoscerli, a questo punto, e di battersi per loro.
Cinquant’anni dopo la mitica leva calcistica del 68 cantata da De Gregori, ai rigori ci è finito il gioco del calcio. E, in estrema sintesi, a fare da arbitro c’è (anche) la Juve. Quindi Nino no, non aver paura di tirarlo quel pallone. Proviamoci tutti: se c’è da fare uno sciopero, da stracciare gli abbonamenti, proviamo per una volta a superare gli steccati delle tifoserie. Proviamo, per una volta, a tifare tutti per una squadra sola. Quella di Nino, quella del tifo. La nostra.Fonte: Il mattino

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