Luca Fusi: “Il Napoli dell’89 non era solo di Maradona era di tutti”

I ragazzini che oggi allena nella juniores del Santarcangelo non erano nati nel 1989. Ma Luca Fusi ogni tanto gli parla ancora di quella finale (doppia) contro lo Stoccarda, del Napoli e di Maradona, ovviamente. A 30 anni dalla vittoria della coppa Uefa i ricordi sono ancora freschi, come se quel 17 maggio 1989 fosse stato ieri. Le sue parole ai microfoni de Il Mattino:


La prima cosa che le viene in mente pensando a quella gara di ritorno?
«Il gol di Ferrara ci ha un po’ fatto capire che non ce ne era più per nessuno. Ma ricordo perfettamente anche l’apoteosi del gol in contropiede di Careca e il tripudio generale».
Le emozioni più belle tra andata e ritorno?
«Ricordo alcuni episodi che hanno cambiato la partita: all’andata la partita fu più equilibrata perché la tensione era più alta. Volevamo stravincere e ci siamo messi in difficoltà da soli».
I suoi compiti in quelle partite?
«Dovevo mantenere gli equilibri in mezzo al campo e tenere la posizione per impedire le ripartenze degli avversari».
Perché quella non era solo la squadra di Maradona
«Tutti ci sentivamo importanti e sapevamo di poter dare qualcosa. C’era chi come De Napoli e Crippa davano tutto con la corsa, e chi come me poteva dare equilibrio dal punto di vista tattico giocando a pochi tocchi».
E poi ovviamente c’era Diego:
«Quelle con Maradona sono state esperienze uniche, al di là di ciò che mi ha dato come giocatore. Quello che mi ha dato fuori dal campo come motivazione credo resterà indimenticabile. Un esempio su come deve essere un leader e un trascinatore. Sono cose che ti servono anche fuori dal campo». 
Oggi una finale di andata e ritorno sembra impensabile: voi come avete vissuto la settimana tra una gara e l’altra?
«Si pensavano a tante cose: avevamo fatto un risultato positivo all’andata ma avevamo sempre il dubbio che potesse non bastare».
E poi?
«La consapevolezza di essere un gruppo capace di tutto in quegli anni ci ha dato una grossa forza. Infatti avevamo una grande voglia di giocare subito il ritorno». 
Ripercorrendo quella cavalcata fino alla finale, qual è stata la partita più importante?
«La sfida con il Bayern Monaco ci ha fatto capire quello che poteva essere l’epilogo della stagione. Perché nella partita in casa avevamo dimostrato di essere al top, e anche quando c’è stata la partita di ritorno in Germania in uno stadio così importante, siamo stati bravi a gestire nel migliore dei modi. Gli episodi ci avevano fatto capire che avevamo qualcosa in più».
Lei con la Juventus, invece, non c’era.
«Ero squalificato e l’ho vissuta da tifoso. Ma anche quella mi ha dato delle grandi emozioni».
Come ha vissuto l’attesa della partita di ritorno con lo Stoccarda?
«In quei giorni non si dormiva tanto. Avevi questa adrenalina per la partita e non vedevi l’ora che arrivasse. Sapevamo che vincere avrebbe significato fare un passo nella storia. Ognuno di noi la viveva con un’ansia positiva, di quelle che ti danno la carica».
E la sera prima?
«Ci ritrovammo un po’ tutti nei corridoi: quelli che non dormivano si scambiavano qualche parola. Ognuno cercava di essere di aiuto all’altro».
Mentre Bianchi? 
«Anche in quei momenti ha dimostrato di essere una persona eccezionale. Capiva ancora di più di noi quello che stava accadendo. Con altri aveva già vinto lo scudetto e quindi era abituato ad assaporare il piacere della vittoria. Per altri come per me, invece, era la prima volta».
Poi, però, è scoppiata la festa
«Quella è stata qualcosa di meraviglioso. Vedere una città sveglia in piena notte che ci aspettava è stato emozionante. Anche se penso che la cosa più bella sia stata l’attesa».
Cosa intende?
«Quando raggiungi l’obiettivo arrivi scarico. E allora l’attesa della partita, l’attesa di vedere alzare la coppa da parte del nostro capitano, l’attesa di vedere la gente all’aeroporto di Napoli: quelli sono stati gli attimi più intensi».
Meglio la coppa Uefa o lo scudetto che avete vinto l’anno dopo?
«Anche lo scudetto è stato altrettanto emozionate e pieno di momenti intensi, ma me lo sono goduto meno perché capivo che stava finendo il percorso a Napoli. Durante la stagione della coppa Uefa, invece, mi sentivo parte di un progetto anche in ottica futura».
Dal passato al presente: oggi lei insegna ai ragazzini.
«Ma non mi piace definirmi un allenatore».
E cosa allora?
«Mi reputo un educatore e un insegnate di calcio».
Oggi lei è alla guida della squadra Juniores del Santarcangelo, ma è passato anche dalla prima squadra del Real Marcianise: come mai ha deciso di dedicarsi ai più piccoli?
«Ora seguo i ragazzi dal 2000 al 2002, ovvero quelli che sono a ridosso dell’esordio in prima squadra. Il valore del settore giovanile è fondamentale per andare avanti nelle piccole società e sinceramente a me stuzzica di più stare con i ragazzi, sopratutto quando sei in una società che crede in questo tipo di progetto».
Per altro lei ha avuto un maestro molto speciale
«Ho iniziato a fare l’allenatore nel settore giovanile Atalanta perché avevo dato la mia parola Mino Favini: Appena smetti di giocare avrei piace di averti come allenatore del settore giovanile, mi aveva detto. Era stato il mio responsabile quando giocavo e così non ci ho pensato nemmeno un attimo. Ora che lui non c’è più resta sempre un mio grande punto di riferimento». 
Il consiglio che da ai suoi ragazzi?
«Devono diventare uomini. Pochissimi di loro diventeranno calciatori, invece tutti diventeranno uomini e quindi al di là dell’aspetto calcistico devono esser educati e rispettosi. Devono imparare a vincere così come a perdere».
Ma i suoi ragazzi la riconosco in qualche vecchia foto?
«I primi anni mi conoscevano tutti. Ora molto meno. Possono guardare attraverso i social o qualche vecchia immagine. Ma il mio passato non cambia il rapporto che c’è tra noi. Da quello che noto hanno grande fiducia nell’educatore prima ancora che nell’ex giocatore».

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