Non è un prestanome del clan Mallardo: Pino Taglialatela lo sapeva da sempre, due giorni fa l’ha definitivamente accertato anche la Corte d’Appello. Assolto.
L’ex portiere azzurro fa ancora fatica a mettere assieme i pezzi di questa vicenda che l’ha travolto nel 2012 e s’è conclusa solo l’altroieri. Alterna il racconto con continui salti nel tempo, dal giorno in cui gli arrivò la «carta del tribunale» al momento in cui entrò in aula per una deposizione che gli sembrò infinita e sfiancante: «Ero abituato alle emozioni del San Paolo, alle pressioni di San Siro e di cento altri campi di calcio, eppure quando sono entrato in quell’aula c’è stato un momento in cui pensavo di non resistere alla pressione».
Prima di ogni parola, però, Taglialatela chiede una premessa: «Devo dire grazie ai miei avvocati Luca Capasso e Monica Marolo, sono stati amici, fratelli, angeli custodi per me in questa assurda vicenda che posso raccontare con un sorriso. Grazie Luca e Monica, grazie davvero».
Partiamo dall’inizio?
«Non so quale sia l’inizio. So che un giorno mi chiamò la guardia di Finanza di Ischia per consegnarmi una carta. Da quel momento la mia vita è cambiata totalmente».
Quella carta diceva che lei era indagato.
«Dicevano che ero prestanome di un malavitoso. Avevano trovato un ciclomotore intestato a me, nella disponibilità del marito di mia cugina. Poi trovarono una anche Panda intestata a me ma utilizzata da una mia zia. Così è iniziato tutto».
Cosa «è iniziato»?
«Sostenevano che fossi il prestanome di un uomo di camorra. Hanno cominciato a fare le pulci alla mia vita chiedendo conto di ogni cosa».
Lei sarà ricco, con il calcio ha guadagnato tanto.
«Non possiedo yacht né alberghi, i miei averi sono troppo scarsi per essere considerato un prestanome di camorra», adesso ride.
Quindi è stato facile dimostrare la sua estraneità a questa vicenda.
«Macché. Chi indagava è andato indietro nel tempo. Mi chiedevano notizie di auto lussuose che possedevo quando facevo il calciatore, io non ricordavo nemmeno di averle avute. Lo ammetto, da giovane mi piaceva cambiare auto spesso, come calciatore potevo permettermelo e lo facevo, ma tutto alla luce del sole, tutto con i miei soldi».
Lei, però, era sereno, sapeva che non sarebbe accaduto niente.
«Per una settimana sono rimasto chiuso in casa per la vergogna. E ho vissuto tutte le notti di questi anni pensando: e se non mi credono? Se decidono di mandarmi in galera?».
Si è sentito isolato, abbandonato?
«Per niente. Questa è la parte bella del racconto: nessuno ha mai creduto a questa storia. Amici, ex colleghi calciatori, tifosi, mi dicevano di stare tranquillo e non hanno mai smesso di stare al mio fianco».
Quindi la vita è andata avanti regolarmente.
«Ho dovuto rinunciare a tante cose».
Perché?
«Non volevo che la mia vicenda potesse mettere in difficoltà chi mi dava fiducia. Ho detto di no a Fabio Cannavaro che mi voleva con lui nell’avventura all’estero, ho rinunciato alla chiamata di Luciano Castellini, il giaguaro, che mi avrebbe portato alle nazionali giovanili, mi sono tirato indietro dal rapporto con la Rai».
L’ha fatto spontaneamente o le hanno chiesto di rinunciare?
«No, no, sono sempre stato io a fare un passo indietro. Anzi, certe volte chi mi proponeva avventure entusiasmanti non capiva. Solo quando la vicenda è esplosa sui giornali tutti hanno compreso».
Quando è esplosa la vicenda?
«Alla vigilia dell’assoluzione in primo grado. Qualche settimana prima ci furono le richieste della pubblica accusa: dissero che meritavo 14 anni di prigione. Quando le notizia si diffuse fu un colpo terribile per me».
Che sapeva di essere innocente.
«Ma tremavo all’idea di un errore giudiziario».
Errore che non c’è stato.
«E oggi mi sento di dire a tutti che bisogna avere fiducia nella giustizia e non aver mai paura quando si è innocenti: la verità viene sempre a galla».
Fonte: Il Mattino