Quella di Sandro Abbondanza è stata una carriera caratterizza da alti e bassi, da quasi predestinato alla voglia di mollare tutto. Nel 1972-1973 fece prevalere il cuore: tornò a Napoli mentre si stava affermando alla Lazio, cominciando poi la discesa nelle serie minori. Abbondanza aveva deciso di dimenticare il calcio, poi arrivò la chiamata da parte di Juliano per mettersi in gioco con il settore giovanile del Napoli.
Ora ha scelto di allenare i ragazzi più giovani, come mai? «Non appena ho smesso di giocare, ho iniziato ad allenare nel settore giovanile del Napoli e lì sono stato presente per 13 anni di fila perché l’azzurro è sempre stato il colore del mio cuore e della mia carriera. Impossibile dimenticare le emozioni che mi ha regalato quella maglia. In un certo senso mi ha aiutato anche a dimenticare il finale della mia carriera da calciatore che non è stato troppo felice».
Ma lei ha smesso molto giovane. «All’inizio non sapevo cosa avrei fatto dopo il calcio. Volevo solo smettere. Questo mondo non mi aveva dato quello che avrei voluto e per un attimo sono stato preso dallo sconforto».
Perché? «Non volevo più giocare perché mi ero disamorato e avevo perso entusiasmo. Sembra assurdo perché non so cosa avrei potuto fare nella vita se non avessi giocato a calcio. Ho iniziato da piccolissimo e infatti ancora ora è la mia vita».
Poi ha scelto di allenare, come mai? «Alla fine è stato un modo per non smettere e non allontanarmi da quel mondo. La dimostrazione che forse il mio destino doveva rimanere legato al pallone. Da questo punto di vista è stata una bella ripartenza per me».
Ma ripercorriamo gli ultimi anni della sua carriera. «Non riuscivo a risalire di categoria e decisi di andare a Sorrento dove speravo di centrare la promozione in serie B rapidamente. Quando poi ho capito che non ce l’avrei fatta, ho mollato tutto: ero pronto a lasciare il calcio definitivamente, non solo quello giocato».
Eppure c’è stata quell’esperienza in Nord America proprio a fine carriera. «Si è trattato di un periodo breve. Prima sono stato in Canada. Il contatto me lo aveva creato un giornalista del Corriere che mi aveva fornito indirizzi e riferimenti per poter iniziare la mia nuova carriera. Poi sono andato negli Stati Uniti. Il calcio lì era ancora agli inizi e la lega nazionale si sforzava tanto per portare molti grandi giocatori di fama internazionale come Pelè, Crujff e Chinaglia. Ma c’erano complicazioni. Ad esempio si giocava solo sei mesi all’anno e i campi erano tutti sintetici, una vera novità per noi che eravamo abituati ai campi europei in erba naturale. Per non parlare delle trasferte, tutte molto lunghe».
Oggi cosa insegna ai suoi ragazzi? «La mia storia mi ha aiutato e mi ha spinto tanto, le mie esperienze negative cercavo di farle diventare positive e la cosa più naturale fu accettare la proposta di Juliano quando mi chiamò per il settore giovanile del Napoli. Quelli sono stati tredici anni bellissimi, ma ora mi dedico ai ragazzi della scuola calcio di mio figlio».
Gli stimoli sono sempre gli stessi? «Quello che conta di più per questo tipo di attività è la passione. Non pensavo di avere questa passione di insegnare ai ragazzi così piccoli, ma devo dire che mi sono ricreduto parecchio. Ora mi diverto. Ho un gruppo di ragazzini nati nel 2009 e un altro gruppo di 2006 e 2007. Le categorie sono Esordienti e Pulcini. Vederli correre e crescere insieme è un’emozione bellissima».
Tatticamente che consigli riesce a dare a questi giovanissimi aspiranti calciatori? «Per quelli è ancor presto: cerco di tramettere il mio amore per il calcio».
Sono tutti molto giovani, cosa sanno del suo passato? «Oggi c’è Internet e allora vanno lì e scoprono tutto. Scoprono che ero uno giocatore tecnico ed intelligente».
Scoprono anche che la chiamavano il «Sivorino», come mai questo soprannome? «A darmelo fu Lambiase, il mio primo maestro. Colpa dei calzettoni che si abbassavano, come quelli del mitico Omar. Ero magro e avrei dovuto mantenerli con la garza, ma se ne scendevano lo stesso».
Ma non è tutto. «Ero anche un giocatore molto tecnico e quindi facevo molti tunnel agli avversari, proprio come Sivori».
Questo soprannome è stato più un peso o un volano? «All’inizio mi ha aiutato molto perché tanti tifosi ancora mi ricordano per il soprannome, ma dopo è stato quasi un peso perché tutti si aspettavano che facessi come lui».
Rimpianti della sua carriera da calciatore? «Uno su tutti: aver scelto di lasciare la Lazio per ritornare a Napoli».
Ovvero? «Forse all’epoca non riuscivo a rendermene conto ma oggi se potessi ritornare indietro, all’anno della Lazio, farei il pazzo per restare lì».
Ma il Napoli… «Per me che sono napoletano era tutto: vestire quella maglia e giocare in quello stadio era impagabile. Un’emozione unica».
L’esordio? «Al San Paolo, un vero e proprio un sogno, davanti a 62mila spettatori. Avevo una voglia matta di diventare qualcuno nella società dove ero nato e cresciuto. Ma ripeto che forse tornare quell’anno fu un errore perché quando si è professionisti bisogna guardare innanzitutto ai propri interessi e alla carriera. Non si può seguire sempre il cuore».
Fonte: Il Mattino