Tutti lo chiamavano Paletto e fece sognare il popolo azzurro. La radio gracchiò: «Palo! Palo!». Era gol.
Palo, al calcio deve il suo presente?
«Ma sì, con i soldi che ho messo da parte giocando in serie C sono riuscito a realizzare il mio sogno di avere una società che distribuisce latticini in tutta Italia e che da lavoro, adesso, anche a tanti giovani. Ho anche un punto vendita a Battipaglia e, tranne che stare dietro a un bancone, so tutto della produzione di mozzarelle e dell’allevamento di bufale».
Quel mondo dorato è lontano?
«Però molti a molti club di serie A porto i miei prodotti. Per molti anni anche a Coverciano, nel centro tecnico federale. E così ho potuto anche avere l’abbraccio di Prandelli a distanza di oltre 30 anni…».
Poteva farlo prima?
«Povero Cesare, non ha colpe! Mi mandò un gagliardetto con una scritta: Scusa il ritardo. Neppure io avevo capito che quella botta non mi avrebbe fatto giocare più al calcio come prima, come poteva averlo capito lui? Le mie disavventure gliele raccontò mio cognato, che è socio della mia azienda. Mi ero rotto i legamenti ma continuai a restare in campo per altri venti minuti e a prendere calci da Gentile e Scirea che mi menavano senza dire mai una parola. Dovevamo battere la Juventus e non avevo altro in mente. Non c’era spazio per il dolore. Poi, però, finita la partita, il ginocchio era a pezzi. Rimasi fermo sei mesi, poi mi operarono. Paletto non c’era più…».
Era uno dei gioielli del settore giovanile del Napoli?
«Arrivai nel Napoli nel 1975. Avevo 14 anni. In quell’estate, il club aveva selezionato circa 200 ragazzi che arrivavano da ogni angolo d’Italia, da posti che io neppure sapevo esistessero: eravamo tutti nell’ex convento di Piazza Amedeo che era la foresteria della società dove Paolo Fino, il dirigente accompagnatore e braccio destro dell’ingegnere Ferlaino, ci controllava dalla mattina alla sera. Tommaso, l’attuale magazziniere, era uno dei camerieri e lo chef era Raffaele Maresca. Eravamo talmente tanti che facevamo i turni per pranzare e cenare. Io ero un ragazzo di campagna, mi spaventava la città. Ma lì sono cresciuti molti di quei ragazzi che poi nel 1987 avrebbero vinto lo scudetto. E senza quell’infortunio, magari, ci sarei stato pure io in quel gruppo favoloso».
Un’epopea d’oro per la Primavera?
«Corso, Specchia, Sormani. Grandi maestri, grandi uomini prima ancora che allenatori. Con me c’erano Di Fusco, Volpecina, Celestini, Vincenzo Marino, Maniero, Amodio, Nuccio. Ah Nuccio: che coppia che facevamo io e Santino. Lui debuttò prima di me in prima squadra. Vincemmo lo scudetto a Torino, contro i granata. All’andata avevamo vinto 2-0 e lì perdemmo 2-1. Una festa gigantesca ci fecero per quello scudetto Primavera. Corso era geniale: tutto il campionato lo giocammo al San Paolo ma per la finale ci spostammo al Paradiso per avere il calore dei tifosi. Il Torino protestò, ma fu tutto inutile. Corso era un gigante: alla fine di ogni allenamento provavamo a capire qualcosa della sua foglia morta. Peraltro eravamo ben sei mancini: lui fu costretto a spostare Volpecina a destra».
I giovani non sono più al centro dei progetti dei grandi club?
«È sotto gli occhi di tutti. Ai miei tempi, era una continua selezione. Bastava poco per uscire fuori dal gruppo: di quei 200 selezionati, a marzo sa in quanti rimanemmo? Sette. Corso e Sormani non guardavano in faccia a nessuno. Davano una possibilità, come era giusto che sia, ma una e poi basta».
A lei la grande occasione della vita arrivò a Como.
«E non me la lasciai sfuggire. Ero stato capocannoniere del campionato Primavera con 18 reti e nell’anno dello scudetto, a Cuneo, in un torneo internazionale ero stato premiato come il più bravo di tutti. Rino Marchesi, tornato da Marsala dove ero stato mandato a farmi le ossa, mi aggregò alla prima squadra. Mi allenavo con Damiani, Krol e gli altri e la domenica andavo a giocare con la Primavera dove in quella stagione feci 15 gol. Poi, la settimana prima di Como si fecero male prima Capone e poi Speggiorin. Vado in panchina, prendo il posto di Musella, e mi bastano 30 minuti per segnare il mio primo gol in serie A».
Divenne una stella.
«Rientrammo in lotta per lo scudetto, il lunedì a pranzo il telefono di casa, nel Cilento, venne bombardato di telefonate di giornalisti. Era stata la domenica anche del gol annullato a Turone in Juve-Roma ma il Guerin Sportivo dedicò a me la copertina. Ero il simbolo dei ragazzi campani che ce l’avevano fatta».
Durò poco, però.
«Sì. Guadagnavo 500 mila lire al mese e per la vittoria a Como intascai un premio di 1 milione e 800 mila lire. Li portai ai miei genitori e non ci potevano credere a quanti fossero».
La favola non è a lieto fine.
«Quella calcistica, no. Non solo perché lo scudetto non lo vincemmo, perché la Juve vinse al san Paolo 1-0 ma poi perché quell’incidente mi stravolse: non ero più scattante e veloce come all’inizio. Tra Como e Juventus ho giocato 55 minuti. Ora dopo un crociato si torna anche più forti di prima, allora era un incubo. Ho giocato in serie C al Piacenza, al Foligno e al Civitavecchia. Ma capii che era finito un sogno quando il Napoli mi perse con il Piacenza alle buste con gli emiliani per 90 milioni di lire».
Col calcio ha chiuso?
«Per 15 anni non sono riuscito a vedere una partita. Troppo cattivo era stato il mio destino. Poi ho fatto il direttore sportivo alla Battipagliese, ho vinto anche un campionato. Ma la soddisfazione migliore arriva dalle mie bufale e dai miei prodotti di Casa Bufala. C’è la fila per i miei prodotti. E se mi trovano nel giorno giusto, racconto anche del mio gol che poteva cambiare la storia del calcio italiano. E che invece non lo ha fatto».
Fonte: Il Mattino