D. Bertoni, il puntero: “Scelsi Napoli perchè per noi è casa!”

Tango y balon. «Estate 1984, mi misi d’accordo con Juliano qualche giorno prima del sì di Maradona perché Napoli fin dai tempi di Sivori era come una seconda casa per noi argentini. Sarei venuto anche se non avessero preso il più grande di tutti». Addio conte Pontello, addio Firenze. Daniel Bertoni sceglie Napoli. Due anni in cui «il puntero», erede di un altro puntero Ramon Diaz, ha lasciato il segno con la numero 7 sulle spalle. Anche se all’ombra del più grande al mondo. Argentino come lui. Ora fa il commentatore per Fox Sport, va in giro per i sobborghi di Buenos Aires sperando di incontrare un altro Pibe de oro, ogni tanto sente al telefono Menotti e qualche altro campeon del 78. Ma non è epico, non è nostalgico. E ha solo un grande cruccio.
Bertoni, davvero. E quale?
«Mio nipote Benjamin. Ha 4 anni e mezzo e invece che per l’Independiente, la squadra dove sono cresciuto da ragazzo, fa il tifo per il River Plate. E per di più mi chiede di accompagnarlo al Monumental a vedere le partite. Io un po’ ne soffro, ma per lui faccio qualsiasi cosa».
Ha pure lui quel tocco su punizione con cui ha incantato l’Italia?
«Vedo che ha un bel tiro, non ha ancora quel giro che facevo fare io al pallone. Ma prima o poi gli mostro per bene come si fa».
Perché c’è un trucco?
«Il trucco più antico di sempre: allenarsi all’infinito, come facevo io fin da bambino, quando il pallone era una sfera pesantissima e per alzarlo da terra dovevi avere davvero il piede fatato. Ai miei tempi, solo uno calciava le punizione come me…».
Posso immaginare.
«Quanti bisticci per chi dovesse farlo. Io e Diego ci dividemmo le aree di influenza: allora, se c’è da calciare da destra, vai tu, sennò vado io. In allenamento ci scatenavamo: una volta durante il riscaldamento prima di una partita a Roma, iniziammo a bombardare Garella. Lui ci prese gusto, e io e Diego pure. In pratica, non ci accorgemmo che la partita stava per iniziare, il nostro duello era diventato più importante della gara di campionato. Garella era scatenato, aveva un c… incredibile, le prendeva tutte».
Eravate amici con Maradona?
«Un buon rapporto. Ma amicizia è un’altra cosa. Prima di Napoli-Arezzo, esordio per tutti e due al San Paolo in Coppa Italia, lo stadio è pieno. C’è un calcio di punizione: lui ha già segnato e io muoio dalla voglia di far gol. C’è punizione per noi, piazzo la palla e lui fa il segno che vuole essere lui a battere. Io faccio finta di essere d’accordo. Piazza la palla, si gira, prende la rincorsa ma io sono più veloce di lui. Segno. È l’unico che non festeggia mi guarda e mi fa: bravo, ma non farlo mai più».
Se lo incontra che gli dice?
«Ma no, ha incontrato poche settimane fa in Messico Jair Emanuel mio figlio che lavora in Fifa. Lui si è avvicinato a Diego e gli dice ti ricordi di me, mi hai tenuto sulle gambe a Napoli a casa di Bruscolotti. Si ricordava di ogni cosa».
Di Napoli che ricordi ha?
«A casa di Peppe ho vissuto un bel po’ di settimane in attesa che si liberasse un appartamento a Marechiaro. Una ospitalità unica, da vero capitano, da uomo vero legatissimo a quella maglia azzurra. Io quando sono venuto a Napoli ho tirato un sospiro di sollievo: a Bruscolotti non lo superavo mai quando lo affrontavo con la Fiorentina, era terribile. Se passavo, mi prendeva le gambe. Ai miei tempi, era così. Quando saltavi un difensore, lo facevi per legittima difesa più che per andare a fare gol».
Allora erano davvero forti i difensori italiani?
«Terribili è poco. Gentile, Cabrini… ma il più bravo di tutti era Vierchowod. Prima di incontrarlo pregavo tutti i santi».
Ha perso due scudetti, uno alla Fiorentina e un altro al Napoli.
«È vero. Con i viola lo persi all’ultima giornata perché alla Juve diedero un rigore a Catanzaro e a noi a Cagliari ce lo negarono e ci annullarono un gol valido. Sarebbe stato bello sfidarci in uno spareggio. A Napoli fu diverso: con Bianchi proprio non ci prendevamo. Questione di carattere. Lui aveva le sue ragioni, io le mie, anche a distanza di anni non ho rimpianti. Andarmene è stata la scelta giusta, anche se poi l’anno dopo vederli vincere senza di me lo storico tricolore è stata dura».
Sempre la Juve.
«Mai visto un odio per una squadra come per la Juve in Italia. Eppure di rivalità ne ho viste. Eppure, sia con la Fiorentina che con il Napoli quando ci si avvicinava a quella gara, i tifosi avevano gli occhi rossi di rabbia: mi raccomando, vincente, massacrateli. Ora è la stessa cosa, mi pare di capire».
D’altronde, vince sempre la Juve in Italia da sette anni.
«Sono forti, organizzati, proiettati al futuro. Però il Napoli di Ancelotti può rompere questa egemonia. Anche se è sempre strano vedere il Napoli senza argentini. Se gliene serve qualcuno, io sono qui per dare dei consigli».
Ce ne sono in giro di craque?
«Siamo la terra di Di Stefano, Sivori, Maradona, Messi: abbiamo generazioni di campioni pronti a venire in Europa».
Lei ha vinto, segnando in finale, una Coppa del Mondo.
«Però il gol più importante non fu quello all’Olanda. Quello più importante lo segnai all’Ungheria, prima partita di quella fase finale, con una rete quasi nel finale. Senza quella vittoria non avremmo passato il turno. Una nazionale unica, con amici inseparabili come Kempes, Fillol, Ardiles. Dei ragazzi, mai avremmo immaginato che mentre noi pensavamo a giocare a calcio, c’era chi invece sfruttava i nostri successi per nascondere delle atrocità».
Il suo mondiale è quello del dittatore Videla.
«Se avessi saputo dei desaparecidos e delle violenze di Plaza de Mayo non avrei mai giocato quel mondiale. Seguro. I generali ci utilizzarono, quelle ombre non mi hanno mai dato tregua anche se io ero e sono stato sempre dalla parte giusta. Ma ai militari non importava vincere la Coppa del Mondo: loro volevano solo dimostrare che era tutto tranquillo nel nostro Paese e il mondo doveva solo vedere questa serenità. Però io ero un ragazzo, non mi sono mai chiesto se avevo il potere per fare qualcosa».
Le manca Napoli?
«Macarena, mia figlia, vuole tornare presto. Le piace il fatto che appena c’è qualcuno che mi riconosce, mi chiedono foto e autografi. Napoli con Firenze sono rimaste nel mio cuore. Se vogliono, io qui vedo partite dei campionati minori e cerco giovani Messi nei barrios di Buones Aires. Se vogliono, sono a loro disposizione».

Fonte: Il Mattino

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