Partiamo dalla fine Lippi, legatissimo alla sua Viareggio, al suo mare, alle telline, agli amici d’infanzia, alle abitudini-consuetudini, a sorpresa partì per la lontanissima Cina. Ecco quanto detto nell’intervista al Corriere dello Sport. «Sei anni, una bellissima esperienza che si concluderà il 31 gennaio, dopo la Coppa d’Asia. Ho il volo domani. La federazione mi aveva offerto altri quattro anni e mezzo per chiudere in Qatar, ma non me la sono sentita di accettare, anche per una questione di prospettive. Ho bisogno di tornare a casa e di starci un po’, devo ricaricare le batterie, annoiarmi anche, serve che mi rompa le palle per ripartire con più voglia e stimoli. Due o tre anni di lavoro e viaggi, uno stop, e poi si ricomincia: trovo che sia la formula giusta. Con i club ho chiuso per sempre, una nazionale più vicina, europea o degli Emirati, la potrei considerare… Il bilancio è positivo, la Cina è diventata una delle nazionali più forti del Continente, abbiamo perso i Mondiali di Russia per un solo punto, credo di aver fatto qualcosa di buono anche a livello strutturale visto che ho spinto i club a investire sui settori giovanili, oggi tutti hanno squadre under 15, under 16, under 17».
Hai trascorso un’intera vita a ripetere che il calcio è sempre uguale a se stesso. Ancora convinto? «Ogni volta che mi invitano a parlare nei vari supercorsi o nei meeting tra allenatori, ribadisco con forza questo concetto: l’allenatore vincente è quello che riesce a entrare nella testa dei giocatori, specie se campioni. Tu puoi insegnare meglio di altri le diagonali, i raddoppi di marcatura, i tagli, le scalate, il possesso palla, e puoi far declinare il pressing in mille modi, ma se non trovi la sintonia con il gruppo e non risulti credibile, non vinci. Il calcio è psicologia, adattamento alle varie situazioni, empatia, oltre a tutto il resto. Poi, certo, è anche aggiornamento. In generale il livello di preparazione dei tecnici delle serie maggiori è molto alto».
Allegri, Ancelotti e Spalletti, un primo e due secondi: a chi ti senti più affine? «Mi credi, se ti rispondo a tutti e tre? Ecco, forse con Max le analogie sono più numerose. Lui come me è arrivato alla Juve a 46 anni e sempre come me ha vinto il campionato al primo tentativo. Abbiamo radici toscane, come con Luciano. Se ci pensi bene, tutti e tre sanno fare squadra, trasmettere positività, leggere la partita e affrontare i vari momenti. Probabilmente Ancelotti ha il vantaggio di essere cresciuto tanto come giocatore quanto come allenatore nelle grandi squadre dove la vittoria è una condanna e la sconfitta una disgrazia. Lui sa bene cosa significa».
La Juve però è di nuovo davanti. E in più ha Ronaldo. «Che è arrivato al momento giusto. Se fosse stato preso tre, quattro anni fa quando Real, Barcellona e Bayern erano decisamente superiori, avrebbe potuto incidere di meno. Ora invece la Juve è allo stesso livello delle top europee, è cresciuta tanto, per questo ho sensazioni positive. Forse il Ronaldo attuale non è ancora quello di Madrid, ma si comporta come un ottimo giocatore della Juve, si è immediatamente calato nella parte e i compagni l’hanno accolto benissimo riconoscendone sul campo la grandezza. Se risulta meno brillante, almeno fino ad ora, è soltanto perché si confronta con un calcio difensivamente più evoluto».
Dybala ha sofferto l’arrivo del Fenomeno, è indiscutibile. «Non credo proprio, era semplicemente in ritardo di condizione, i due si trovano bene e la loro intesa migliorerà col tempo».
L’Ancelotti trasformista è un’altra delle novità stagionali. «Carlo sta portando la squadra a sé, coinvolge tutti, li fa sentire importanti, nella fase decisiva della stagione ci sarà la sintesi, vedrai. Non ha buttato il lavoro di Sarri – è molto intelligente ed esperto -, ha conservato il meglio e vi ha aggiunto del suo».
Cos’ha in più questa Inter rispetto al passato? «L’autostima. Cinque, sei vittorie di fila possono cambiare la mentalità e gli obiettivi di un gruppo. L’Inter oggi è consapevole della propria forza, sa di poter arrivare al risultato in ogni momento. Spalletti ha responsabilizzato tutti, proprio come Ancelotti. Quando lunedì ho visto che ha messo dentro Joao Mario che non partiva titolare da gennaio ho capito che avrebbe vinto la partita. Ci stanno con la testa».
Lazio e Roma combattono col nemico visibile: la discontinuità. «La Roma è forte ma ha bisogno di crederci di più, le serve l’infilata di successi. Stravedo per Eusebio, è intelligente e preparato. La Lazio deve invece resettare: ormai si può parlare di blocco con le grandi, il primo a essere bloccato è Milinkovic che ha vissuto un’estate pesante, scomoda, di quelle che possono condizionare i mesi successivi».
Marcelo, i settant’anni te li senti addosso? Sorride. «No, sto esattamente come dieci anni fa. Ogni tanto un raffreddore…».
Rimpianti? «Come disse Michael Jordan…?»
Disse: “Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”.
«Una frase che ho stampata nel cervello. Alle vittorie si arriva attraverso gli insuccessi e la correzione degli errori. Ho vinto tutto quello che sognavo di vincere e anche qualcosa di più… Ho sbagliato terribilmente una volta».
Quando tornasti in Nazionale. «Non avrei dovuto lasciarla e non sarei mai dovuto tornare. Tornai proprio perché avevo sbagliato a lasciarla dopo il titolo mondiale. Non commisi un errore grave ma due. In Sudafrica il terzo: al momento delle scelte prevalse la gratitudine, mi resi conto in ritardo che alcuni giocatori avevano già dato tutto, ebbi anche tanta sfiga poiché persi Buffon, Pirlo e mezzo De Rossi».
Come mezzo? «Ma sì, Daniele aveva un polpaccio in disordine. Le mie battaglie più grandi hanno sempre puntato a incrementare nei miei giocatori la consapevolezza della propria forza, fino a raggiungere la presunzione”.
Chi l’ha detto? «Un allenatore che la presunzione la raggiunse attraverso i successi».
La Redazione