Gennaro Scarlato: “Ho indossato la 10 nel Napoli dei piccoli, mi atteggiavo lo stesso!”

La vita di Gennaro Scarlato sembra quella dei personaggi dei videogiochi, con un denominatore comune però, l’azzurro Napoli. Un colore che lo accompagna fin da quando era un ragazzino, fino alla scelta di tornare da capitano nella squadra che è rinata in serie C. Oggi il calcio continua ad essere protagonista nella sua vita. Dal campo alla panchina, perché allena la squadra Berretti della Paganese. 
Ha mai pensato ad una vita senza il calcio? «Direi di no. Fin da quando avevo 15 anni ero nell’orbita della prima squadra del Napoli. Chissà, forse mi sarei diplomato».
E oggi? «Alleno la Berretti della Paganese e sono passato anche dalla panchina della squadra Under 15. Insomma, sto provando a diventare allenatore».
La macchina del tempo, però, ci riporta ai suoi primi calci nel settore giovanile del Napoli. «Indossare la maglia azzurra vuol dire tanto: coroni il sogno non solo tuo ma di tanti ragazzi che giocano a calcio. Io ho fatto tutta la trafila giocando in tutte le categorie giovanili e non solo con il Napoli: dai giovanissimi alla serie A. Tutto ciò rappresenta qualcosa di unico e speciale e a mio modo di vedere è anche una grande soddisfazione».
E poi c’è stato l’esordio. «Ero aggregato alla prima squadra già da tempo e sapevo che non sarebbe stata una cosa facile perché in una piazza come Napoli, per lanciare un giovane, devi sempre vedere bene le cose. Poi Montefusco subentrò a Simoni e mi buttò dentro, mi conosceva già dal settore giovanile».
Che ricordi ha di quel giorno? «In realtà io dovevo esordire già nella stagione 93-94 con Lippi. Si giocava Napoli-Cagliai al San Paolo. Poi segnò Oliveira e bisognava mettere un giocatore più offensivo. Così mi risedetti in panchina».
Quando è arrivato il suo momento? «Un doppio infortunio alla tibia mi frenò e dovetti aspettare la stagione 1996-97 e una gara a Verona quando entrai al posto di Aglietti. Perdemmo 2-0. Ricordo che ebbi anche l’occasione per fare gol, ma Guardalben fece un miracolo. Esordii fuori casa e la volta dopo giocai al San Paolo».
Quindi all’inizio non faceva il difensore centrale? «In realtà sono partito come punta, anche se non sono mai stato un vero attaccante».
Davvero? «Ero bravo nell’assist: un classico trequartista dai piedi buoni. Mi hanno messo un po’ in tutti i ruoli e con Ulivieri facevo il centravanti. Ammetto, però, che non avevo la cattiveria del bomber sotto porta anche se ero bravo nelle sponde».
Ha indossato anche la maglia numero 10 del Napoli? «Solo nel settore giovanile. Veniva assegnata al giocatore che aveva più talento. In quella squadra indossavo anche la fascia di capitano. Le due cose mi davano un tanta emozione, vedevo Maradona che la indossava e mi ritenevo uno importante».
E allora come è finito a fare il centrale? «A Ravenna cambiai tanti ruoli e all’allenatore Rumignani piaceva mettermi in difesa. Mi disse che potevo diventare un buon difensore e dopo tre partite mi prese l’Udinese. Da quel momento è ripartita la mia carriera».
Ma torniamo ancora indietro, ovvero a quella fuga dal settore giovanile del Napoli al Chelsea. «Con Gattuso che era ai Rangers di Glasgow sono stato tra i primi a lasciare l’Italia per la Premier. Con Rino viaggiavamo spesso insieme».
Cosa era successo col Napoli? «Avevo 17 anni ed ero in pianta stabile con la prima squadra ma non mi veniva fatto il contratto. All’epoca non avevo il procuratore perché pensavo che fosse una figura che non serviva, poi mi sono ricreduto. Dietro avevo delle sirene che mi parlavano della possibilità di andare fuori e approfittando della legge Bosman decisi di andare».
Esperienza durata pochissimo però. «Adesso in realtà la rimpiango».
Perché? «Se vessi fatto la carriera all’estero forse avrei giocato di più in A e avrei anche guadagnato più soldi».
Come mai è tornato? «Mio padre non stava bene e il Napoli mi richiamava. A quel punto mi offrirono un contratto buono e decisi di rientrare per amore totale verso questi colori».
Cosa ricorda di quell’esperienza al Chelsea? «Furono tre giorni di allenamenti e partitine con gente come Gullit, che era l’allenatore, e poi Vialli e Di Matteo. In realtà mi avevano chiesto di stare ancora un po’ ma io volevo tornare a Napoli. La proposta di andare al Chelsea mi era arrivata da Vittorio Grimaldi, che voleva prendere la mia procura».
Ma il ritorno più bello in azzurro non fu quello, fu un altro. «Nel 2004 ero alla Ternana ma ero fuori rosa perché avevo uno stipendio molto alto. Quando arrivò la chiamata da parte di Marino, con il quale avevo lavorato a Udine, non ci pensai neanche un secondo. Perché Napoli è Napoli».
Cosa fu per lei tornare? «Bellissimo, anche perché ero un giocatore diverso e importante. Da giovane tante cose non le capivi e non le vedevi. Ho contribuito fortemente alla rinascita del club».
È stato anche il primo capitano dell’era De Laurentiis. «In realtà fu il gruppo ad affidarmi la fascia, perché vedeva in me il carisma e la leadership. Una soddisfazione».
Non aveva mai giocato in serie C: che impatto ebbe? «Strano. Partimmo in ritardo rispetto agli altri, però poi fu tutto naturale, perché Napoli non era una piazza da serie C, ma di serie A».
L’allenatore di quella squadra era Ventura, se lo aspettava sulla panchina della Nazionale? «Sono stato contento per lui perché stravedeva per me e avevamo un ottimo rapporto. Mi aveva allenato anche a Udine, ma per quello che lui dà al calcio era poco adatto alla Nazionale: ha bisogno di stare ogni giorno con i giocatori».

Fonte: Il Mattino

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