Carratelli sulle pagine del Cds racconta Maradona
II^ parte
Elogio del palleggio infinito di Diego Armando Maradona raccattapalle dell’Argentinos ai bordi del campo quando, nell’intervallo di una partita di campionato, prendesti il pallone e, sotto gli occhi di meraviglia di don Yayo, l’uomo che su un camioncino trasportava i ragazzini del fùtbol dalle loro povere case al campo d’allenamento, cominciasti uno dei tuoi palleggi infiniti, sinistro, testa, spalla, destro, esterno coscia, ginocchio, piede mancino, il pallone sollecitato a non toccare mai terra, e gli occhi divennero migliaia su di te e centomila bocche gridavano “olè, olè” accompagnando il palleggio di meraviglia. Le squadre tornarono in campo per ricominciare a giocare, ma la folla ti urlò “rimani, rimani”, e tu continuasti, e la folla urlò “ancora, ancora”, ma l’arbitro ordinò il perentorio inizio del secondo tempo. Allora, smettesti e con un colpo di tacco del piede mancino calciasti il pallone verso don Yayo che lo raccolse e sorrise mentre lo stadio emetteva un grande sospiro di stupore e letizia.
Questo è l’inizio di una storia infinita, di una vita da romanzo. Dicevi: 1A me è venuta la pelle dura per quello che ho vissuto a Villa Fiorito». La pelle non fu dura abbastanza alle prime insidie della vita, nello stordimento improvviso, sotto i colpi contrari. Nelle notti catalane, l’agrodolce di una tentazione vaporosa e soffice, una polvere di luna viziosa, la forza candida di una stella esplosa, eri sicuro di domare quell’amica improvvisa e l’inebriante piacere della fantasia che scatenava perché era solo un gioco.
A Napoli, Mimì Rea disse: «La faccia di Maradona da pianeta della miseria ha conquistato i napoletani prima del suo colpo di tacco. Questo è un virtuosismo, quella è una storia che i napoletani conoscono benissimo. Diego ha una faccia sulla quale si legge un benessere recente, di recente si è rassodata, i capelli sono da poco cresciuti alla moda, ma è una faccia sulla quale le ombre, le rabbie, le privazioni di un passato povero palpitano ancora sotto tutti quei riccioli neri». La faccia di Napoli. Ecco l’incantesimo che ci prese tutti. Eri uno di noi.
Seguirono le magie al San Paolo e le notti allo “Zapata” e alla “Cachassa”. Avevi due Ferrari, una nera esclusiva, una Rolls Royce decappottabile, una Mercedes, due Renault e una Hyundai perché eri il re di Napoli. I ragazzi si fecero i capelli “alla Maradona” e chi non ci riusciva poteva comprarsi la parrucca di riccioli neri “alla Diego”. Cantavamo: «O mama, mama, mama, sai perché mi batte il corazòn». Peter Green del “Sunday Mirror” scrisse: «Maradona si muove sul campo con l’eleganza di Fred Astaire». “El Grafico” di Buenos Aires scrisse: «Hoy en el mundo entero, Maradona es el fùtbol mismo».
Il tuo giocare a pallone da artista senza uguali era un messaggio di gioia e un lungo brivido di felicità. Ma fu nel giorno drammatico della confessione del peccato, quando ormai te ne eri andato dalla città del golfo, tradito dall’imboscata di un controllo negli spogliatoi, in quel giorno in cui da Buenos Aires apparisti sugli schermi televisivi, gonfio e malinconico, per dichiarare il vizio sovrano di cui ti eri fatto suddito triste, quel giorno diventasti nostro figlio e fratello da proteggere dalle ingiurie del mondo.
In quei lunghi mesi di una lotta senza tregua, della dannazione cadendo e rialzandoti, quando vedesti due volte il Barba, quando sembrava la fine e ricominciavi, guerriero magnifico, idolo infranto e perciò più vicino a noi che idoli non eravamo ma avevamo le nostre debolezze, i nostri peccati, le nostre cadute, in quei lunghi giorni, più che per le tue magie sul campo delle delizie, sei rimasto scolpito nei nostri cuori per sempre. Perché fosti un uomo, la più fragile delle creature su questa Terra. Quello che hai fatto per uscire dall’inferno in cui ti eri cacciato, sprofondandoci dolorosamente ogni giorno in quei giorni napoletani in cui avevi vergogna di farti vedere, è stato il massimo della tua gloria, quando il leone che sei ha abbattuto la scimmia che si era impossessata di te.
Oggi è bello sapere che tutto è passato, che l’incubo è ormai lontano, che Diego-Dieguito è un uomo che ha ristabilito la pace con se stesso. E mai ha dimenticato Napoli e Napoli mai ti ha dimenticato. Nel giorno in cui vincesti la Coppa del Mondo in Messico, dicesti: «Questa coppa è anche dei napoletani». Paladino delle nostre monellerie, dei nostri affanni, del nostro orgoglio. E peccatore, grande peccatore come tutti noi di ogni sud del mondo, calienti e smarriti, fedeli-infedeli, allegri-tristi, felici e dannati, timorati di Dio e in combutta col Demonio per addentare la vita prima che la vita ci mangi. Tu, Diego, hai pagato per tutti. Ma hai vinto. Feliz cumpleaños. Fonte: CdS