KK si racconta ai miocrofoni del CdS: “Mi sento, francese, senegalese e napoletano. Un giorno piangerò”

Koulibaly: "Napoli è l'unica città in Italia che non è razzista"

Kalidou Koulibaly, 27 anni, nella sua lunga intervista al Cds. Dal razzismo ai tre allenatori parlando del suo arrivo in Europa. Da leggere tutta d’un fiato. 

«Sono nato in Francia a Saint-Dié-des-Vosges da genitori senegalesi che sono venuti in Europa per lavoro. Mio padre lavorava il legno, andava nei boschi a tagliare gli alberi. Mia mamma invece era cameriera. Sono nato là, insieme a tre fratelli e una sorella. Da bambino ho cominciato a giocare a calcio, avevo penso quattro o cinque anni, con i miei coetanei che abitavano vicino a casa mia. E visto che Saint-Dié-des-Vosges è una città che accoglie molti stranieri io giocavo tanto con altri senegalesi, arabi del nord, turchi, avevamo tutti un modo di giocare diverso e ho iniziato a giocare a calcio in questo ambiente. E così ho imparato molto. Come si impara dalle diversità, che sono sempre una ricchezza». 

Lei fino a dove è arrivato con gli studi?  «Ho fatto la scuola secondaria. Ho preso il diploma in Economia e Società».  

Quando è venuto in Italia?  «Sono arrivato in Italia cinque anni fa. Benitez mi ha contattato quando militavo nel Genk in Belgio. Lui mi ha contattato nel gennaio 2014 e sono arrivato a giugno 2014». 

Come è stato crescere in Francia, essendo senegalesi?  «La Francia è un paese molto aperto, quando ero giovane stavo sempre in giro con persone di diverse nazionalità, culture, religioni. C’era una grande comunità di senegalesi dove abitavo, dove sono nato e sono cresciuto. Ma c’erano anche tanti turchi e tanti arabi del Nord Africa e convivevamo benissimo anche con i francesi. Io ho ancora contatti con tutti i miei amici di allora, vengono spesso a Napoli e quando arrivano sembra loro di stare a casa. E questo mi fa molto piacere». 

Suo padre quando è arrivato in Francia dal Senegal? «Mio padre è andato a Parigi per lavoro, perché c’era un’azienda di tessuti che offriva occupazione. Lui è arrivato dal Senegal per provare a farsi una nuova vita in Europa e ha lavorato quattro anni a Parigi. Poi ha avuto la possibilità di questo lavoro a Saint-Dié con mio zio e sono andati tutti e due a lavorare nella stessa azienda di legno: Si sono fatti valere, si sono stabilizzati, integrati. Mia mamma ha raggiunto mio padre dal Senegal, si sono sistemati a Saint-Dié e lì e hanno avuto i bimbi. Siamo tutti nati a Saint-Dié».

Come ricorda la sua terra di origine? «Io sono nato in Francia però la mia prima volta in Senegal è stata a quattro anni. Mi ricordo che sono andato solo con mia mamma. Ho tanti ricordi perché ho conosciuto mia nonna per la prima volta e tutti i miei cugini. Per me era veramente il momento giusto per andare perché ora tutti questi ricordi li ho nella testa. Quando sei troppo piccolo dimentichi le cose, ma a quattro, cinque anni penso che quello che vivi e vedi ti resta dentro. A casa mia in Francia si parlava solo una lingua del Senegal e con i miei genitori parlavo solo questa lingua. Per me casa mia e anche il mio quartiere era un piccolo Senegal perché parlavamo solo quella lingua. In francese si parlava solo a scuola o fuori, quando giocavo con altri amici. Ma a casa mia no, non dovevamo recidere le nostre radici. Ho sempre avuto questa duplice educazione, francese ma anche senegalese. E questa diversità mi ha fatto diventare l’uomo che sono oggi».

Quindi lei si sente cittadino di almeno tre Paesi: la Francia, il Senegal e ora anche un po’ l’Italia? «Sì, mi sento francese e senegalese da quando sono nato. Quando uno mi chiedeva di dove ero, rispondevo che ero francese ma anche senegalese da parte dei miei genitori. Per me era molto importante. Poi, quando sono arrivato in Italia, a Napoli, dopo un anno e mezzo mi sentivo già cittadino napoletano. Perché io, Kalidou Koulibaly, sono, mi sento, francese, senegalese e napoletano».

Quando era bambino per che squadra tifava? «Questa è una domanda difficile, avevo tante squadre che mi piacevano. Io sono cresciuto nel Metz, nel quale c’erano molti giocatori senegalesi, quindi io tifavo per loro. Ho avuto la fortuna di giocare là, quindi sono un grande tifoso del Metz in Francia. Ma mi piaceva anche il Marsiglia perché quando ero piccolo vinse la Champions League e mi entrò nel cuore».

Mi racconta come è stata la sua prima impressione quando è arrivato a Napoli? «Io già a gennaio 2014, quando Benitez mi ha chiamato, mi ero messo in testa di arrivare a Napoli. Poi il trasferimento non si è concluso ed ero molto dispiaciuto, perché pensavo che sei mesi dopo il mister Benitez avrebbe scelto qualcun altro. Invece lui a maggio è venuto da me e mi ha detto “Vieni che devi firmare a Napoli perché io ti voglio assolutamente con noi”. Ha visto qualcosa che nessuno aveva visto in me e di questo lo ringrazio molto perché è grazie a lui che sono arrivato a Napoli. La gente mi diceva, come dappertutto, che Napoli è pericolosa e tutte queste storie… Ma un mio amico che giocava nel Genk mi ha spinto: “Là si gioca la Champions, si gioca il calcio vero ed è una squadra per te”. Quando ho detto alla mia famiglia e agli amici che volevo giocare al Napoli, subito mi hanno detto che erano d’accordo e questo per me è stato importante. Quando ho messo per la prima volta la maglia del Napoli, per un’amichevole, ero molto contento. Sentivo orgoglio perché il lavoro, tanto e duro, che avevo fatto fino a quel momento ripagava. Ma ora sono io a sentire di dover ripagare la fortuna di esser qui con un impegno straordinario sul campo».

E la città che impressione le ha fatto? «Io sono di un piccolo paese, in Francia, quindi per me era la prima volta che andavo in una grande città. Napoli è bellissima. Qua c’è il sole, c’è il mare, la gente ti accoglie con grande piacere. Vivono il calcio con passione, quasi come una febbre. Mi hanno accolto da subito. Quando dico che sono napoletano la gente ride, ma io mi sento veramente così perché quando sono arrivato fin dall’inizio mi hanno trattato benissimo e io di questo mi ricorderò sempre. Hanno anche convinto mia mamma che è una persona molto difficile da questo punto di vista. A lei non piace andare fuori, quando è arrivata in Francia aveva un po’ di difficoltà, poi si è abituata. Quando è venuta a Napoli mi ha detto che si sentiva benissimo, doveva rimanere due giorni e alla fine è rimasta due settimane. Si vedeva che lei si sentiva benissimo e quando i miei genitori, la mia famiglia stanno bene da qualche parte, allora mi sento bene anche io».

Lei ha mai avvertito rischi di razzismo? «Quando ho firmato la gente diceva che l’Italia è molto razzista. Io volevo rendermi conto da solo, non volevo ascoltare la gente, mi piace vedere le cose con i miei occhi. Tra quello che pensa la gente o quello che dice e quello che è veramente la realtà c’è un mondo di differenza. Il mio portiere di casa, che si chiama Ciro, mi ha detto “Quando arrivi a Napoli piangi due volte: quando arrivi e quando parti”. Io gli ho detto “Non ho pianto quando sono arrivato ma se un giorno dovrò andare via, spero il più tardi possibile, è sicuro che piangerò”. Aveva ragione quando mi ha detto così, io sono molto felice qui. La gente parla a volte male di Napoli e non sa che cosa è Napoli. Quando non la vivi non puoi sapere che cosa è davvero».

In campo le è capitato qualche episodio in cui è stato fischiato per il colore della sua pelle?  «Sì, in altri stadi, non a Napoli. Quando sono arrivato non li ho sentiti durante il mio primo anno, ma già dal secondo ho iniziato a rendermi conto e mi dava fastidio. I “buu” mi infastidiscono, non li accetto, perché non sono solo contro di me, per il colore della mia pelle, a volte sono anche contro “i napoletani”, la gente del Sud. Questo mi dispiace molto perché quando sei in un Paese dove tu devi trasmettere un senso di appartenenza e poi fischi contro la gente del Sud, o fai cori razzisti, finisci col contraddirti. Le faccio un esempio calcistico: quando uno come Insigne, che è un fuoriclasse assoluto, forse il migliore giocatore dell’Italia, è fischiato in alcuni stadi perché è meridionale, poi quando va in Nazionale come lo devi trattare? Io non capisco questo tipo di atteggiamento e spero che evolva velocemente. Stiamo cambiando, ma penso che dobbiamo ancora fare degli sforzi, perché l’Italia deve andare avanti da questo punto di vista e dobbiamo aiutarci a farlo. Un altro esempio: la Nazionale francese che ha tanti giocatori di colore, di altre origini, che hanno vinto il Mondiale. Per me questa è la cosa più bella che possa succedere».

Perché lei ha scelto la Nazionale senegalese e non quella francese? «Forse alcuni anni fa avrei scelto di giocare con la Francia, però andando avanti, vedendo le chiamate del Senegal che mi cercava da quattro anni, parlando con i miei genitori, vedendo l’orgoglio nei loro occhi quando ho deciso di giocare con il Senegal, ho deciso e sono stato molto felice. Voglio portare avanti i miei valori. Giocando nel Senegal penso di poter aiutare il mio Paese. Ma anche me stesso perché i miei valori sono questi, sono convinto della bellezza della diversità. Il Senegal è una terra che si apre a tutti, tutti quelli che arrivano sono accolti come fossero senegalesi. Questo per me è molto importante. Quando vado in Senegal mi vedono come una persona di valore nel suo campo, che ha voglia di far crescere il Paese».

Ha avuto come allenatori Benitez, Sarri e Ancelotti nel Napoli. Mi dice le differenze tra questi tre allenatori? «Poca e molta. Poca perché sono tutti e tre grandi allenatori. Il calcio di Benitez e quella di Ancelotti si somigliano molto. Ho avuto la fortuna anche di giocare con mister Sarri e il suo calcio era per me veramente bellissimo. Lui mi ha permesso di vedere il calcio e le partite in un’altra maniera. La sua filosofia era concentrata sulla tattica, tutto era previsto con lui. Oggi, quando guardo una partita di qualsiasi squadra, non la vedo più come quattro o cinque anni fa. E lo devo a lui. Benitez mi ha fatto scoprire il calcio vero. Io ero in serie B in Francia, poi in Belgio, lui mi ha dato la possibilità di andare per la prima volta in serie A, in un campionato molto importante. Il suo calcio è molto simile a quello di Ancelotti perché sono allenatori che hanno vinto, allenato grandi squadre e la loro visone del gioco ha molti punti di contatto. Ancelotti, tutti lo conoscono, ha vinto molto, ma quello che mi sorprende di più è l’umiltà che ha ancora e anche la voglia di vincere che non smette di avere. Un uomo veramente perbene e lo ringrazio molto perché mi dà ancora la voglia di andare avanti, di crescere e di far vedere che sono un giocatore sempre più forte. Con lui spero di fare qualcosa di bello perché è uno che dà fiducia a tutti e penso che non si sentirà mai un giocatore parlare male di lui, perché ha grandi valori e trasmette serenità. A mia moglie dico sempre che spero, alla sua età, di essere una persona simile a lui».

Perché il Napoli,che è una grande squadra, da diversi anni non riesce a vincere uno scudetto? «Ci sono tante cose. Vincere è molto difficile ma stiamo provando. Il Napoli forse ti dà alcune cose ma ne toglie anche altre. Perché vinci e ci sono commenti positivi e forse ti rilassi e questo è sbagliato. Come lo è deprimersi per le critiche. Quello che abbiamo fatto l’anno scorso è stato veramente bello. Tutti dicevano che facevamo il calcio più spettacolare ma non siamo stati capaci di tenere la testa concentrata per vincere. Forse quest’anno mister Ancelotti ci dà quello mancava l’anno scorso: la mentalità, la voglia di stupire tutti. E poi ci dà un’altra cosa che non so come spiegare: lui ha voglia di vincere. Quando ce ne parla e ci trasmette questa energia veniamo tutti trainati. Abbiamo voglia di vincere. Speriamo di riuscirci quest’anno, abbiamo tante possibilità per farlo».

Chi è l’avversario più forte che ha incontrato? «Ho incontrato tanti grandi giocatori. Un avversario solo non lo saprei dire ma ci sono tanti attaccanti che mi hanno impensierito. Durante il mio primo anno,quando giocavo contro Tévez, era veramente molto difficile. Ci sono altri attaccanti meno conosciuti che a me danno molto fastidio. Ma non dico i nomi, perché dopo se ne approfittano…».

Kalidou, se lei dovesse dire ad un bambino cosa è il calcio come glielo direbbe? «Il calcio è emozione, soprattutto divertimento, perché senza divertimento penso che non puoi far niente nel calcio. Io voglio soprattutto far divertire i tifosi che vengono a tifare la nostra squadra. Il merito, in fondo, è tutto loro. Io gioco a calcio per questo, per dare emozioni ai tifosi. Quando li vedi felici tu sei molto contento, quando dopo la partita vai a cantare con loro sei molto contento. Penso che un bambino debba avere questa immagine: il calcio è divertimento, deve rimanere e continuare ad essere così. Mio figlio, quando sta a casa, imita i tifosi che cantano l’inno della Champions. Li ha visti in tv seguendo le mie partite. A me viene da ridere, ma sono anche orgoglioso perché lui vede che cosa io sento sul campo. Io, Kalidou Koulibaly, cittadino del mondo e napoletano verace». 

La Redazione

 

Koulibaly
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