Segui Jorginho in Nazionale e pensi a Jorginho del Napoli, del Chelsea. In una parola, al Jorginho di Maurizio Sarri. Cambia il contesto, cambia il testo. Cambia, soprattutto, il senso della regia. Come se l’italo-brasiliano vivesse in una reggia con Sarri, grazie a Sarri, e in una prigione con Roberto Mancini, per colpa di Mancini.
Non è così, o meglio: non è solo così. Nelle squadre di club ci si allena ogni settimana e la quotidianità accentua la pratica, raffina l’intesa. A Coverciano, in compenso, ci si ritrova ogni due o tre mesi. Manca il tempo di curare i dettagli, di regolare le lancette: bisogna arrangiarsi con quello che passa il convento, certo, ma anche con il tempo che passa. E mai come in azzurro il tempo è denaro. Persino Mancini faticò ai suoi bei dì.
Ci sono giocatori capaci di restare se stessi dovunque e comunque: al di là del ruolo, dei compagni, dell’ambiente. Ce ne sono altri, e Jorginho parrebbe uno di questi, che hanno bisogno di sentieri precisi, di riferimenti assidui, di flussi e riflussi studiati. Il travaso non sempre è automatico sul piano qualitativo. E talvolta non lo sono, addirittura, le migrazioni da un club all’altro. Dall’archivio ci soccorre il Valencia di Hector Cuper, hombre vertical. Ecco: quel Valencia arrivò a disputare due finali di Champions consecutive, nel 2000 e 2001. Perse la prima, a Parigi, con il Real (3-0) e la seconda a San Siro, con il Bayern, dopo averlo costretto ai rigori.
L’unione faceva la forza, la diaspora no. Francisco Farinos e Kily Gonzalez finirono all’Inter, ma di memorabile non lasciarono nulla. Gaizka Mendieta sedusse Sergio Cragnotti, all’epoca facilmente impressionabile. Era il 2001 e la Lazio arruolò il basco per sostituire niente meno che Pavel Nedved. Bastò una stagione, una sola, per certificare il disastro.
Numeri alla mano, l’eccezione parziale fu Claudio Lopez, attaccante svelto e luciferino, alla Lazio dal 2000 al 2004. Anni solcati da un grave infortunio. Le stesse creature di Gian Piero Gasperini all’Atalanta, tanto per allargare la matassa senza perdere di vista il bandolo, sembrano soffrire il trasloco dalla culla ai nuovi domicili: Roberto Gagliardini ora che è all’Inter, per esempio; oppure Franck Kessie ora che è al Milan.
La Nazionale è un’altra cosa, quasi un altro mondo. Un po’ hotel e un po’ museo, ci si entra e ci si esce senza ricavarne i vantaggi che i calendari scarni del passato offrivano e, per questo, devi crederci, devi essere più forte dei disagi, delle diffidenze. Non stiamo parlando di fuoriclasse né, in questa sede, ci interessa farlo. È il pendolare che abbandona le lavagne di casa e non si ritrova più, né vittima di pregiudizi né colpevole di eccesso di nostalgia tattica. Jorginho e tutti i Jorginho, appunto. Ad alcuni, merce rarissima, riuscì il percorso inverso: le notti magiche del 1990 fissarono un’altezza che Totò Schillaci mai toccò nella Juventus, all’Inter o in Giappone.
Lo stesso Lorenzo Insigne non riesce a esprimersi compiutamente. E dire che i c.t. coinvolti nel progetto sono quattro, non uno: Cesare Prandelli, colui che lo lanciò; Antonio Conte, non proprio un suo tifoso; Gian Piero Ventura, vedi alla voce Conte, e infine Mancini.
Già ci sono pochi italiani, ma se poi quei pochi vanno su e giù per le montagne russe, o perché in campionato non giocano o perché non si adattano al cambiamento di «fuso», si torna al confine – e al confino – del copione e dell’attore. Questi «impostori», per dirla con Rudyard Kipling.
Fonte: Gazzetta