A Napoli ormai è di casa, Marek Hamsik è per il dodicesimo anno di fila che gioca con la maglia azzurra ed è diventato il capitano. Di questo e di altro lo slovacco si racconta al Corriere dello Sport.
Marek Hamsik come ha cominciato a giocare a calcio da bambino? «Ero quasi in fasce. A tre, quattro anni ero già iscritto alla scuola calcio. Praticamente la mia vita comincia dando calci a un pallone sui campi dello Jupie Podlavice, in Slovacchia».
Il paese di quanti abitanti era? «Centomila. Facevamo tornei giovanili e in una partita riuscii a realizzare sedici gol. Avevo undici anni, allora. Quell’anno feci 111 reti in 38 partite. Una media discreta. Ma vivevo per il calcio, già allora».
I suoi genitori che facevano? «Papà era calciatore. Mio nonno, i suoi fratelli, mio padre, tutti calciatori. Tutta la famiglia provò la carriera calcistica, a livelli amatoriali».
E quindi lei da bambino aveva il pallone nel dna… «Sì, quando sono nato avevo già gli scarpini sul lettino. Un po’ di destino c’era. Quando ho esordito in prima squadra nella seconda divisione slovacca avevo sedici anni, un bambino o poco più».
Per quale squadra tifava allora ? «Barcellona, Manchester United. Quando ero piccolo quelle squadre erano un mito, qualcosa di lontano e irraggiungibile. Poi sono sceso in campo nei loro stadi e tutto mi è sembrato, al contempo, straordinario e naturale».
Chi è stato il giocatore che l’ha più impressionata nella sua vita? Quello che è stato il suo mito? «Mi piaceva Zinédine Zidane, estro e geometria, e molto Pavel Nedved che era delle nostre parti, della Repubblica Ceca, e ha fatto una grandissima carriera. Due centrocampisti con spiccate doti offensive, come, in fondo, sono io».
Poi viene ceduto al Brescia, e così arriva nel nostro paese. «Mi ero fatto notare in Slovacchia e così il presidente Corioni mi ingaggiò. Brescia è sempre stata una fucina di talenti, pensi solo a Pirlo. E io esordii in serie A che non avevo neanche diciotto anni».
Lei è uno dei giocatori che nella storia del Napoli rimarrà per il segno che ha lasciato: per i gol che ha segnato, per le presenze. Dopo Bruscolotti e Juliano è il giocatore che più volte ha indossato la maglia azzurra. Cosa è Napoli per Marekiaro? «Ormai Napoli è casa mia e sono orgoglioso di stare qua. È una città in cui vivo bene e in cui non mi sento straniero. Napoli è migliore di tanti stereotipi e tanti pregiudizi. È una città splendida e i napoletani sono calore umano e intelligenza, senso dell’umorismo e generosità. Spero di portare ancora avanti la mia carriera nel Napoli. Vediamo cosa sarà, ma spero in me stesso. E poi sono legato a Castel Volturno, dove vivo. Pensi che mi conferiranno la cittadinanza onoraria. E io sono molto grato è orgoglioso di questo».
Cosa le piace di Napoli calcistica? «La passione incredibile per il calcio. I napoletani sono caldi, competenti , vivono il calcio come un gioco, ma un gioco importante. Per un calciatore è l’ambiente ideale. Aggiunga il mare meraviglioso e il mangiare sopraffino ed è spiegato facilmente perché chi arriva a Napoli difficilmente ha poi piacere ad andarsene».
Perché però è così difficile vincere uno scudetto a Napoli? «Per la semplice ragione che ci sono squadre molto forti, squadre costruite da anni per vincere in Italia. Squadre che ora sembrano costruite persino per vincere in Europa».
Che differenza c’è tra Sarri e Ancelotti? «Siamo tutti soddisfatti di Ancelotti. Il mister ci ha fatto capire, in poche settimane, di essere una persona stupenda, aperta. Ci dà tanti consigli, è molto simpatico e sta lavorando molto bene. Non per caso ha vinto dovunque è stato, in Europa. Siamo un po’ tutti scettici dopo le amichevoli disputate, ma in campionato si è visto quanta grinta ci mettiamo. Siamo sempre una buona squadra che vuole giocare e divertire. Non abbiamo vinto tanto, finora, ma abbiamo una gran voglia di farlo».
Sarri che caratteristiche ha come tecnico? «Sarri era un uomo del campo, viveva ventiquattro ore su ventiquattro in campo. Era davvero malato, veramente, non trascurava niente, neanche i minimi particolari».
Dove può arrivare il Napoli quest’anno? «E’ ancora presto, siamo all’inizio del campionato. Però la squadra non è cambiata moltissimo. Ogni giocatore, nel nostro sistema, è fondamentale. Come lo è il mister. Che apporta le sue nuove idee, con equilibrio e saggezza, su un modo di giocare collaudato nel tempo. Per il resto la squadra è sempre la stessa. Può fare molto bene. In campionato e in Europa».
Per una squadra è un pregio rimanere più o meno la stessa o è meglio cambiare? «Non cambiare troppo. Noi non abbiamo cambiato troppo. E’ rimasto il novantacinque per cento dell’anno scorso. Io penso che vada bene così. Ci capiamo al volo, abbiamo giocato insieme centinaia di partite».
Cosa pensa che potrà significare l’arrivo di Cristiano Ronaldo nel calcio italiano? «Può cambiare la dimensione del calcio italiano nel mondo. In questa città giocava Maradona, a Torino Platini, a Roma Falcao… E poi Van Basten, Ibrahimovic. Il calcio italiano torna in quella posizione nel mondo. È una sfida e una grande responsabilità per tutti noi».
Qual è il gol più bello che lei ha fatto nella sua vita? Quello che ricorda con più piacere? «Quando abbiamo vinto la Coppa Italia contro la Juventus, nel 2012. Una gioia incredibile. E poi quello con il Milan quando attraversai il campo con la palla al piede e poi segnai».
Qual’è il difensore che le ha reso in campo la vita difficile? «E’ difficile. Però quelli della Juve degli ultimi anni. Sono sempre state partite molto complicate, con loro».
Secondo lei chi sarà la rivelazione di questo campionato? «E’ difficile dirlo. Ho visto fare belle cose da Lautaro Martinez, il nuovo acquisto dell’Inter. Ha fatto un gol strepitoso e si vede che sta bene in campo».
Invece l’allenatore più importante nella sua vita chi è stato? Quello che le ha insegnato di più? «Io ringrazio tutti gli allenatori che ho avuto e ne ho avuti di straordinari, ma quello che mi ha migliorato di più, mi ha fatto evolvere tecnicamente e tatticamente, è mister Sarri».
Lei è nato in Slovacchia e proprio in questi giorni è stato l’anniversario dell’invasione sovietica a Praga. Che giudizio ne ha? Non dico che ricordo perché lei è nato dopo, ma nella storia del suo Paese che peso ha avuto quella pagina? «Una pagina molto dolorosa, quella dell’invasione di Praga. Si è parlato tanto, in questi giorni, della Slovacchia e della Repubblica Ceca. Erano anni duri, di lotte per la libertà. Era il mitico 1968. In quegli anni sono nati mia mamma e il mio papà. Glielo dico per darle la misura di quanta sia la distanza temporale da quegli eventi. Temporale, ma non affettiva».
Se lei dovesse dire ad un bambino che cosa è il calcio come glielo spiegherebbe? «Una passione, un modo di vivere, non un lavoro e basta, non un gioco e basta. Mi dà passione, mi dà da mangiare, mi dà soddisfazioni, mi dà gioia, ma anche dolori, sconfitte, perdite. Il calcio è un’enciclopedia della vita: regala in pari quantità sofferenza, entusiasmo, emozioni».
C’è una maglietta di una partita che lei si porterebbe su un’isola deserta? «Io sono un collezionista di maglie e quelle che ritengo più importanti le tengo sempre per me. Quella della Coppa Italia, della qualificazione ai Mondiali, del Napoli dei record. Tutte queste maglie le tengo perché sono importanti, sono simboli della vita che ho vissuto».
Quale è il calciatore più intelligente con cui lei ha mai giocato? In campo e nella vita? «Non ho alcun dubbio: Pepe Reina. Grande cervello, grande persona. Un leader».