Tebas: «l’Italia non sta al passo? Riducete gli ingaggi e investite sugli stadi »

La Gazzetta dello Sport parlato con Javier Tebas, il presidente della Liga festeggiava i 5 anni alla guida del calcio spagnolo. Un movimento che Tebas ha cambiato radicalmente modernizzandolo, arricchendolo, tirandolo su da un pozzo di debiti. Per questo in Italia si è pensato a lui per provare a uscire dalla crisi attuale.

Anche se in Spagna c’è ancora chi dice che dall’Italia non le avevano offerto nulla, che la sua è stata solo una mossa per farsi alzare lo stipendio.

«Lasciamoli dire, sono pochi e non sono mai stati granché a mio favore. L’interesse c’era, ed era mutuo».

Lei è fortemente legato alla Spagna, qui ha tutto o quasi. Perché voleva andare in Italia dove regna una discreta confusione, a voler essere benevoli?

«Perché era una sfida importantissima e perché credo che il calcio italiano abbia immense possibilità di crescita. Pensavo che con il metodo applicato qui in Spagna e un certo tipo di guida si sarebbero potute fare cose impressionanti. Paragonando l’industria calcio italiana con quelle di altri Paesi come Spagna, Inghilterra o Germania ci si rende immediatamente conto che il margine di crescita della Serie A è amplissimo. È indubbio che non si sta lavorando bene visto che non si riesce a star dietro al ritmo di crescita degli altri».

Ha studiato il caso Italia in profondità o solo in maniera superficiale?

«In profondità, concentrandomi sui valori dell’industria calcio, sulla strategia nazionale e internazionale necessaria per la sua crescita economica, soprattutto legata allo sfruttamento dei diritti audiovisivi. Col numero di abitanti, col ratio di penetrazione della tv a pagamento, con lo spettro di clienti appassionati al nostro sport, il calcio italiano deve per forza raccogliere molto di più, fare molti più soldi».

Altri settori d’intervento immediato che aveva individuato?

«Su un piano commerciale, la gestione dei diritti tv a livello internazionale. La marca Serie A nel mondo ha ancora un buon valore ed è un prodotto che si consuma in tanti Paesi però è necessario approntare una strategia geolocalizzata, Paese per Paese. L’attuale modello di vendita globale va assolutamente cambiato: ogni Paese dev’essere trattato con una strategia propria, mirata, elaborata riunendosi con ognuno degli operatori locali. Noi per esempio come Liga all’estero abbiamo 70 contratti differenti».

Altre cose?

«La variazione del sistema di controllo economico delle società. Il rapporto tra massa salariale e introiti nel calcio italiano è molto ‘stressato’. La Serie A in questo senso è il campionato che ha il rapporto peggiore, seguito dalla Premier League e poi da Liga e Bundesliga. Quando dico stressato intendo dire che nel calcio italiano si sta spendendo in salari più di ciò che si dovrebbe e che parte di quel denaro andrebbe investito nel rinnovamento delle installazioni e nel miglioramento delle strutture, fattori che contribuiscono in maniera significativa all’incremento degli affari di un club. Se abbassi la massa salariale puoi investire in settori che ti faranno incassare di più permettendoti così di poter alzare di nuovo gli stipendi. La riforma degli stadi è fondamentale ma finché il monte salariale pesa tanto sui bilanci del club è difficile che i club possano muoversi in quella direzione».

La Liga in Spagna multa i club che non riempiono gli stadi. In Italia riempirebbe le proprie casse rapidamente. Cos’aveva pensato in proposito?

«Innanzitutto è fondamentale migliorare il pacchetto audiovisivo creando un ”prodotto Serie A”, identificabile e identificato. La Serie A è composta da 380 partite e hanno tutte lo stesso valore. È ovvio che ci sono gare più importanti di altre, ma il prodotto dev’essere concepito, realizzato e commercializzato nel suo insieme, solo così il valore complessivo può aumentare. Poi è chiaro che gli stadi vanno migliorati, tanto per chi li frequenta come per chi se li deve godere a livello audiovisivo. Per questo dico che il prodotto deve incrementare il proprio valore: solo così i club potranno investire negli stadi, contribuendo al miglioramento del prodotto stesso e facendo che la gente vada più volentieri allo stadio. È una catena. E qui bisogna pensare anche al fenomeno Ultras».

Che in Italia è ancora un problema.

«Bisogna decidere che tipo di competizione si vuole, cosa si desidera vedere in uno stadio: se puntiamo su un modello di ozio ed entertainment gli stadi devono essere luoghi di concordia e divertimento, non di lotta, aggressione e violenza verbale. Occhio, questo non vuol dire che non si faccia il tifo o che non ci sia ambiente, tutt’altro, solo che vanno eliminate provocazioni, insulti e violenza che evidentemente non permettono al nostro spettacolo di crescere. Però bisogna chiedersi se il calcio italiano vuole davvero andare in questa direzione».

Il fatto che gli stadi italiani non siano di proprietà dei club viene considerato un grosso ostacolo in tema di ristrutturazione.

«È un falso problema, e non può essere una scusa: si possono fare accordi con le amministrazioni cittadine, modernizzazione degli impianti in cambio di una concessione più lunga o altri benefici. Che gli stadi non siano di proprietà non deve rappresentare una scusa perché non vengano avviati processi di ristrutturazione. A me questo sembra un concetto antiquato».

Con quanti club italiani ha parlato prima di prendere la sua decisione?

«Quattordici. Con alcune società più in profondità, con altre meno. Tutti avevano ben chiaro il fatto che il calcio italiano ha bisogno di un cambio radicale. E la necessità d’intervenire urgentemente perché le altre leghe europee stanno accumulando un gran vantaggio su quello che fino a 15 anni fa era il miglior campionato del mondo. Di certo c’è che non si può continuare così, con questo senso di paralizzazione in primis nel modello di sfruttamento dei diritti audiovisivi. Le società italiane questo lo sanno molto bene, però fanno fatica a fare il primo passo per avviare il cambio radicale. Non è positivo per nessuno che un Paese come l’Italia, parte importante del nostro business, vada male, non funzioni. La cosa mi preoccupa».

 Fonte: gasport

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