L’Intervista – Altafini: “Io core ‘ngrato fui definito coniglio. Rifiutai la Roma”

Josè Altafini ai microfoni del CdS

Qual è il primo pallone che Josè Altafini ricorda?

Il primo pallone non esisteva perché noi non avevamo soldi. Abitavo in una città di duecentomila abitanti fuori San Paolo, in Brasile. Noi bambini giocavamo a piedi nudi e l’unico che aveva un pallone era il figlio di un droghiere, il cui soprannome era Foca. Noi pendevamo dalle sue labbra ogni pomeriggio. Lui non era appassionato di calcio, era uno che stava bene, aveva il benessere che noi non avevamo e se ne fregava di noi. Dovevamo sempre andare a cercare Foca per giocare. Per invogliarlo gli dicevamo che lui era il più forte della squadra, gli facevamo tirare rigori, calci d’angolo, falli laterali, tutto. Lo incensavamo dicendo “Tu sei uno dei più forti giocatori del Brasile”. Ma lui a un certo punto si scocciava, prendeva la palla e voleva andare via. Lo imploravamo chiedendogli di giocare ancora un po’ ma lui andava via e noi palloni non ne avevamo. Io avevo una pallina da tennis spelacchiata con cui giocavo dalla mattina alla sera contro il muro di casa. Ma poi successe una cosa: Foca una volta è andato in un circo e si è innamorato dello spettacolo circense. Nel cortile di casa sua aveva un albero grandissimo di mango. Era talmente impazzito per gli acrobati che costruì un trapezio. Per poter utilizzare quel benedetto pallone noi dovevamo fare i pagliacci del circo, per Foca, sul trapezio. Eravamo ricattati.
Suo padre e sua madre che facevano?
Mio padre lavorava in uno zuccherificio francese, è stato quarantadue anni lì . Quando ero bambino le mie caramelle provenivano dal setaccio dello zucchero della fabbrica, residuavano delle palline dure come il marmo e mio padre le portava a casa.
Sua mamma?
Mia mamma era casalinga, noi eravamo cinque figli e qualche volta lei faceva la cuoca a casa di un direttore dell’azienda. Gli altri fratelli lavoravano, io ero l’ultimo. Mio padre non voleva che giocassi a calcio, una volta calciando a piedi nudi mi sono fatto male ad un dito. Lui mi ha redarguito e voleva picchiarmi. E’ strana, la vita.
La sua famiglia veniva dall’emigrazione italiana?
Tutti di origine veneta. Eravamo una famiglia povera, come tante, allora. Non è che non mangiassimo , però mangiavamo contato. Il nostro piatto era il più povero che ci fosse : riso e fagioli, oppure minestrone. Facevamo il tifo perché uno dei fratelli magari non mangiasse tutto, per finire il suo piatto. Mio padre a furia di prendere anticipi del suo stipendio alla fine del mese arrivava a casa con la busta vuota. C’era solo il resoconto degli anticipi che aveva preso. Zero Cruzeiro.
Come arriva alla serie A brasiliana ?
Io credo molto nel destino. Come diceva Vinicius de Moraes “la vita è l’arte dell’incontro”. Quando ero ragazzino c’erano persone più grandi di me che si intendevano di calcio e volevano portarmi nella scuola calcio del Bangu di Rio. Mio padre non mi ha lasciato andare. In effetti per noi la distanza era molto grande, la mia città dista da Rio cinquecento chilometri. Dopo un anno però si presentò a casa mia un proprietario di corriere, faceva la tratta per San Paolo: mi aveva visto giocare nel Piricicaba e mi ha portato un biglietto dell’autobus per andare a San Paolo a fare un provino. Io non volevo andare e invece i miei genitori mi hanno spinto. Ruoli rovesciati, il destino. Sono andato a San Paolo seduto per quattro ore su una cassa di pizze di film. Sono arrivato alle undici di mattina, stavano già allenando la squadra titolare del Palmeiras con tutti i giocatori famosi della nazionale e mi hanno detto «Vai subito a spogliarti che giochi» . Io risposi: «Ma come, mi sono svegliato alle cinque, ho fatto quattro ore di viaggio sulle pizze dei film e devo fare subito il provino ?». Ma è andato tutto bene.
Era già forte?
Non ero fortissimo. Ma torna Vinicius… Quando giocavo nei ragazzi del Palmeiras la squadra titolare non andava molto bene. Il presidente si è arrabbiato e ha mandato via sei o sette giocatori della prima squadra e ha fatto salire i ragazzi delle giovanili. Io ho imparato molto dai titolari, mi allenavo con loro. C’era un po’ di “nonnismo”, loro dicevano ai più giovani cosa fare e bisognava obbedire. Al mattino mi mandavano fuori dallo stadio a comprare brioches e caffè e latte…
Perché la chiamavano Mazola?
Hanno cominciato a chiamarmi Mazola, con una zeta, perché c’era la fotografia del Torino nella sede del Palmeiras. Il grande Torino era stato a giocare in Brasile. Un giorno l’allenatore ha guardato la foto e ha detto che somigliavo a Mazzola. Da quel momento mi hanno chiamato sempre così.
Lei ha fatto due gol anche al Santos di Pelé…
In una partita che è diventata storica e tutti dicono che è stata la più bella di tutti i tempi. Il Santos vinceva 5 a 2 nel primo tempo, noi abbiamo ribaltato 6 a 5 e poi il Santos ha vinto 7 a 6. Questa partita è rimasta nella storia, una partita disgraziata perché sono morti due o tre di infarto.
Come successe al Maracanà per la finale con l’Uruguay nel 1950 , il calcio come passione totale…
All’epoca mia e di Pelé eravamo tutti pazzi per la squadra del ‘50. Il giocatore più famoso di quella quadra, il Pelé dell’epoca, era Zizinho, che era mezz’ala del Bangu. Nel ’57, sette anni dopo, Zizinho venne a giocare nel San Paolo e aveva trentanove anni. Io militavo nel Palmeiras. Giocando contro il San Paolo ho preso la palla a metà campo e Zizinho mi ha buttato a terra perché stavo andando verso la porta. Lui allora è venuto, mi ha preso per il braccio, mi ha tirato su e mi ha detto “Scusami garoto”. Mi sembrava un sogno. Una leggenda che chiedeva scusa a uno che non sapeva ancora come si chiamava.
Che ricordo ha di Pelè ?
Lui aveva diciassette anni e io diciannove. Eravamo i più giovani della squadra e lui era già molto più maturo di me perché io scherzavo, ridevo, facevo casino. Lui era molto serio, simpatico ed era molto semplice. Chi ha giocato con lui sa che è stato il più grande giocatore di tutti i tempi, senza dubbio. Quando fanno i paragoni, citano Maradona, si sbagliano. Ha vinto tre Mondiali, ha fatto milleduecentoventicinque gol, era ambidestro, quando correva con l’avversario sulla destra lui portava la palla con il sinistro e viceversa. Il gol più bello della sua carriera lo fece contro la Juventus di San Paolo: tre pallonetti agli avversari compreso il portiere. Una poesia. Purtroppo non esiste il filmato del gol, solo la fotografia. E lo rifece uguale nella finale del 1958 contro la Svezia. In acrobazia era fortissimo, in velocità incredibile. Io ho visto una partita a San Paolo di sera. Aveva piovuto e il campo era allagato, pieno di pozzanghere, lui correva e dribblava le pozzanghere e gli avversari. Io quello che ho visto fare a Pelé non l’ho visto fare mai a nessun giocatore. Oggi mi entusiasmo per Messi. Messi è immarcabile e fa delle cose incredibili. Lo preferisco a Ronaldo. Ronaldo è la potenza e Messi è la poesia.
Garrincha? Ha giocato con lui?
Io devo a lui il primo gol in nazionale quando sono entrato con il Portogallo che stava vincendo 1 a 0. Lui mi fece un cross a mezza altezza, io mi tuffai di testa e feci gol. Sono sincero: non so se i brasiliani sono d’accordo con me, ma penso che lui sia stato decisivo per vincere il mondiale del ’58 e quello del ’62. Pelé aveva diciassette anni e un ragazzino di diciassette anni che vince un mondiale fa scalpore. Ma Garrincha è quello che ha risolto tutti i problemi del Brasile. In Cile Pelé non c’era e lui è stato capocannoniere con sette gol. Uno dei più grandi giocatori della storia.
Come era umanamente Garrincha?
Era un ragazzo semplice. E’ brutto dire non intelligente, non era molto informato, viveva in un suo mondo. Abitava in campagna con la moglie, otto figli e viveva di caccia. Il nome Garrincha significa uccellino. Io ho due tristezze nella mia vita: quando è morto lui e quando è morto Ayrton Senna. Due persone che mi sono rimaste nel cuore.
Poi lei arriva in Italia, al Milan.
In quel momento la Roma era vicina a comprarmi. E’ successa una cosa molto strana che mi ha raccontato poi Biscardi e Sensi mi confermò. La Roma ha mandato un osservatore in Brasile. Noi giocavamo un torneo il Vasco da Gama a San Paolo ci stava battendo due a zero e loro nel secondo tempo facevano melina. Dopo aver fatto il gol del 2 a 2 noi ci buttavamo per terra ogni minuto, fingevamo colpi durissimi e perdevamo tempo. Poi abbiamo vinto 4 a 2. Io feci due gol. L’osservatore della Roma tornò in Italia e la società chiese come era questo Mazola. L’osservatore disse “E’ bravo, ma epilettico”. La Roma mi aveva già comprato dopo il mondiale ma improvvisamente arrivò un telegramma del Milan che offriva di più. Pochi sanno che con quei soldi il Palmeiras ha acquistato ventidue giocatori : Djalma Santos, Julinho della Fiorentina, e in quell’anno ha vinto quasi tutto .
Con il Milan vince due scudetti e la Coppa dei Campioni nel’62-’63…
Mi ricordo che purtroppo non ho potuto festeggiare perché dopo il 2 a 1 ho subito un calcio al polpaccio dal centromediano del Benfica e sono stato tutta la notte con il ghiaccio. Forse loro hanno sottovalutato la nostra squadra perché venivano dalla vittoria di un anno prima ed erano una squadra strepitosa. Pensi all’attacco: Josè Augusto, Eusébio, Torres, Coluna e Simoes. Hanno fatto 1 a 0 e forse erano già convinti di vincere. Ma noi abbiamo recuperato e vinto 2 a 1. Una partita stupenda, con tante parate dei portieri, con tanti gol sbagliati. Ma io non sbagliai quello decisivo.
Perché andò via dal Milan?
Litigai con Gipo Viani. Mi dispiace parlare così di chi non c’è più, ma lui era un direttore sportivo che dava la colpa agli altri. Entrava nello spogliatoio puntandomi il dito in faccia e dicendo “Oggi abbiamo perso, è colpa tua”. Con lui è nato un appellativo che è stata una delle cose più ingiuste nella mia vita. Perché nella partita Santos-Milan, al Maracanà, vinceva il Santos 1 a 0 e il telecronista disse “Il Santos attacca, il Milan si difende e Altafini non si vede”. Viani era in Italia, lo hanno chiamato e gli hanno chiesto “Perché avete perso?”. Ha risposto: “Per colpa di quel coniglio”. Non puoi dire coniglio a uno che ha segnato trecentonove gol e non ha mai giocato con il parastinchi. Se io avessi avuto paura, non avrei giocato senza parastinchi.
I mondiali in Cile come li ricorda?
Noi avevamo una squadra fortissima, ventidue giocatori eccezionali. Ma c’era una disorganizzazione totale. A cominciare dagli allenatori: uno era Mazza, il presidente della Spal e l’altro era Ferrari, del centro tecnico di Coverciano. Un medico di cui non voglio dire il nome, non si curava di noi, era sempre in giro per il Cile. Disorganizzati in tutto: vivevamo in una scuola di aviazione, non c’era controllo, uno dormiva fino a tardi, l’altro prendeva il grappino al mattino. Insomma, totale anarchia.
E poi ci fu la partita con il Cile.. Noi eravamo i favoriti del girone insieme alla Germania. Poi è successo quel casino dei due giornalisti che hanno scritto che il Cile era un paese povero e pieno di prostitute. Dopo due minuti la radio locale, i giornali, tutti hanno cominciato a bombardare il nostro ritiro. Non potevamo neanche uscire a passeggiare. Giochiamo con la Germania, clima assurdo. Tiravamo i fiori al pubblico che ce li ritirava indietro, e abbiamo pareggiato 0 a 0. Poi giochiamo contro il Cile e c’è stato il patatrac del pugno di Sanchez a David. L’arbitro espulse lui e poi Maschio e allora lì è stato un casino. Noi potevamo fare molta strada, in quel mondiale.
Poi lei va al Napoli e lì gioca con Omar Sivori. Come eravate voi due?
Io sono andato via per un litigio con Viani al Milan e Sivori per uno con Heriberto Herrera. Non lo faceva giocare. Fiore, uno dei più grandi presidenti che ho conosciuto, ha comprato Sivori e Sivori mi ha chiamato per chiedermi di andare insieme al ritiro a L’Aquila. Io in macchina gli ho detto «Omar, a me non frega niente che tu sia il re di Napoli, l’importante è che io possa segnare una o due volte a partita». E lui «Ma io ho paura che noi, venendo da una squadra di serie B, in serie A dovremo lottare per evitare la retrocessione». Invece abbiamo fatto un campionato strepitoso, abbiamo trascinato il club, ottantamila persone ogni domenica a Napoli. Abbiamo portato diecimila tifosi a Bologna e a Roma. Sivori era il re e io il suddito però stavo bene così. Omar era un leader vero. Serio e simpatico, professionista e istrione.
Poi lei va alla Juve..
Non potevo più stare a Napoli, perché avevo già trentatré anni. Ho detto a Ferlaino che volevo andare via e firmavo un contratto con meno soldi ma volevo il cartellino libero. Lui ha accettato. Mi ha chiamato Italo Allodi per chiedermi se potevo andare alla Juventus, Bettega era malato e stava recuperando e volevano che io giocassi in quel periodo. Poi mi ha cercato anche Anzalone. Sono andato a Roma ma lui mi ha offerto un contratto a gettoni ed io ho detto: «grazie,ma non mi piace telefonare a gettoni». Per la seconda volta ho sfiorato i giallorossi. Mi ha contattato anche la Sampdoria ma io volevo assolutamente tornare in Coppa dei Campioni. Allora accettai il contratto con Allodi. In quei giorni mi ha chiamato il padre di Mentana, Franco, perché il Milan voleva che io tornassi lì per aiutare Calloni. Purtroppo per loro io avevo già firmato con la Juventus. A Torino ho avuto un eccesso di zelo, volevo fare bella figura e sono dimagrito, ma troppo, quattro chili in meno del mio peso normale. Ma non era grasso, ho perso i muscoli. Ho fatto tanta fatica a recuperare tanto è vero che hanno affrettato il rientro di Bettega e io sono stato in panchina fino a quando,in una partita con la Fiorentina, era 1 a 1, mi hanno fatto entrare ed ho fatto il gol della vittoria. Lì cominciai la mia avventura.
Quanti gol ha fatto entrando dalla panchina?
C’è stato un episodio: abbiamo giocato in campo neutro a Bergamo contro l’Ascoli, eravamo 1 a 1 e mancavano tre minuti. Ad un certo punto l’allenatore Parola mi dice “Entra” e io non volevo perché quelli che ti fanno entrare a tre minuti dalla fine li odio. E’ una presa per il sedere . Lui ha detto “Se non entri sarai multato”. Sono entrato, aveva usato un buon argomento. La palla era a metà campo, sono andato verso l’area, hanno lanciato la palla sulla destra e ho fatto gol. Mi sono vergognato come un cane. Gol in soli tre minuti giocati.
Poi ci fu anche il famoso gol con il Napoli.
Lì anche c’è stato un diverbio con l’allenatore. Aveva segnato prima la Juventus 1 a 0, ha pareggiato Juliano e nel secondo tempo la partita stava finendo e noi eravamo 1 a 1. Se noi avessimo pareggiato il Napoli avrebbe potuto vincere il titolo, perché era a due punti dalla Juventus. Ad un certo punto dissi al dottor La Neve di suggerire a Parola di cambiare giocatori, perché altrimenti rischiavamo di perdere il campionato. Non c’è stato verso, aveva paura. Gli dicevo: «fai qualcosa, metti il portiere di riserva al posto di un’ala, qualcosa!». Ad un certo punto mi sono voltato e ho detto «Prendo io la sua responsabilità». Sono entrato e ho fatto il gol del 2 a 1.
I napoletani non glielo hanno mai perdonato…
Loro hanno ragione perché un ex che fa il gol della vittoria, non è bello. Anche io, quando ero a Napoli, la pensavo così. Tutte le volte che il Napoli giocava, ad esempio con il Vicenza, veniva Vinicio e giù applausi di tutto lo stadio. Mi arrabbiavo: ma come , porco cane, applaudono i giocatori avversari e noi che siamo qui e ci facciamo in quattro? Allora quando feci quel gol mi dissero che ero un core ‘ngrato. Ma io stavo solo facendo il mio dovere. Core ‘ngrato perché sono andato via? Io avevo il cartellino libero, però Ferlaino non mi ha detto rimani con noi.
Qual è il suo gol più bello ?
Il gol più bello è sempre quello più importante. Quello di Wembley, quindi. Perché mi ha dato una vittoria importantissima con una squadra che ha vinto la prima Coppa dei Campioni sua e dell’Italia. Ho fatto anche gol in rovesciata, che sembrano andare di moda. Il gol in rovesciata è certamente merito dell’attaccante. Ma anche colpa dei difensori. Faccio un esempio, il gol di Ronaldo contro la Juventus è colpa dei difensori, nessuno lo ha marcato, perché basta che lo tocchi un po’ con il braccio o con il corpo e lui perde l’equilibrio. Il gol più bello in rovesciata è quello di Djorkaeff dell’Inter, strepitoso. Io ho visto tutti e cento gol di Baggio, lui ha segnato almeno ottanta gol bellissimi. Io non sono tifoso della squadra, sono tifoso del calciatore. Nella mia vita ho fatto sempre almeno un gol ogni due partite. Oggi sono un collaboratore dell’Italgreen che si occupa di campi sintetici ma su quelli veri io fatto quasi 350 gol, mica noccioline.
Come la vede Juventus Napoli di domenica?
Posso risponderle lunedì? Tutte le volte che mi chiedono chi vincerà il campionato io rispondo che ne riparliamo ad aprile. Domenica, sul tardi, dirò chi vincerà il campionato. Ad aprile succedono molte cose. Molte squadre vanno in tilt perché sono stanche o ci sono giocatori infortunati. La Juventus è quella che, fin qui, ha gestito meglio di tutti. Ha una panchina molto forte, gestisce bene i giocatori e questo è molto importante. Il Napoli ha peccato in questo. Ma è tutto aperto, ora.
Il difensore più cattivo che lei ha incontrato chi è stato?
Cattivi ne ho trovati tanti. C’era uno che si chiamava Grani del Catania, aveva menato tanto Sivori in uno Juventus-Catania e Sivori gli aveva detto : «Quando verrai a Torino non giocherai più». Gli ha spaccato un ginocchio, è stato di parola. Io odio i giocatori che entrano da dietro perché è un vigliacco . Ricordiamo Maradona quanto si fece male, per il fallo di Goicochea. Il calcio di oggi è migliorato in molte cose. Un attaccante dei miei tempi se sfuggiva al marcatore era assai probabile che fosse atterrato di brutto e il difensore non venisse neanche ammonito. Ora è diverso.
Se lei dovesse dire ad un bambino cosa è il calcio cosa gli direbbe?
La gente mi associa al “manuale del calcio” dei miei commenti televisivi. Quel manuale ovviamente non esiste. Avevo letto un libro di diete americano che nelle prime tre pagine diceva, idea originale, di non mangiare molto. Allora io volevo pubblicare il mio manuale di calcio con scritto solo “Controllo di palla, controllo di palla, controllo di palla”. Il controllo di palla è la cosa più importante nel calcio. I giocatori più grandi, come Iniesta – al quale è assurdo non sia stato dato il pallone d’oro – sembra che abbiano la colla ai piedi. Dico ad un bambino: non ha importanza correre tanto, fare gli schemi giusti. Conta il controllo di palla. Nel calcio e nella vita.

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