Ottavio Bianchi: “Non sono un burbero, ecco la verità”
Spacca il minuto. Alle cinque della sera, si presenta puntuale all’appuntamento, il signore con elegante cappello e sciarpa raffinata. Ti stringe cordialmente la mano e borbotta: «Stavo cercando un medicinale in una delle due farmacie di Città Alta, ma non sono molto fornite». In Città Alta, a Bergamo, Ottavio Bianchi, in un’intervista rilasciata dal CdS, ha casa da quarantacinque anni. Tommaso, il figlio, è nato qui; Camilla, la figlia, è nata a Napoli, l’altra città nel cuore dell’uomo che, trentun anni fa, ha portato il primo scudetto sotto il Vesuvio e poi la Coppa Italia e poi la Coppa Uefa. Nessuno, a Napoli, ha vinto tanto quanto lui. Il freddo è polare. Ripariamo nel locale che, in Piazza Vecchia, ha aperto i battenti nel 1476. Si chiamava la Locanda delle Due Spade. E’ diventato Torquato Tasso Caffé e Bottiglieria nel 1681, l’anno in cui, lì vicino, venne eretta la statua dell’autore della Gerusalemme Liberata, nato a Sorrento l’11 marzo 1544, ultimo di tre figli di Bernardo Tasso, letterato e cortigiano nato a Venezia, ma di antica nobiltà bergamasca. Chissà se un giorno, a Napoli, una statua o un murale lo dedicheranno anche a Ottavio. Certamente, è l’ultima cosa cui pensi l’interessato. «Lo sa che, a casa mia, non ho né una coppa né una maglia né un trofeo? E non vado nemmeno più a vedere le partite, le seguo in tv. Non mi piace l’atmosfera che si respira in certi stadi, detesto gli insulti, gli improperi, le contumelie razziste. Quando allenavo il Napoli e venivamo al Nord, mi chiamavano terrone; quando andavo al Sud e allenavo una squadra del Nord, mi davano del leghista». Fa una pausa. Lui ordina un caffè; io, un tè verde. Diventerà freddo perché il signore che ho davanti ne ha di cose da dire. Ma lei non era mica Ottavio l’Orso, Ottavio il Taciturno, Ottavio il Burbero? «Per chi non mi conosce, sì, ma io non sono così. E’ vero, a Napoli, quando allenavo ho vissuto completamente isolato ed è stato un sacrificio enorme, ma l’ho scelto io perché, da giocatore, avevo capito quanto bisognasse mantenere sempre il senso della misura per evitare di essere stritolati, sia quando vincevi sia quando perdevi».
Una volta, lei ha detto: «A Como dovevo fare l’incendiario, a Napoli il pompiere». Sorseggia il caffè. Ricorda: «Nel ‘69, con la riforma del calendario liturgico il Vaticano declassò San Gennaro a santo di serie B. I napoletani insorsero e reagirono con la loro ironia, tappezzando la città di scritte e striscioni: ‘San Gennà, futtetenne’. La mia ammirazione per i napoletani crebbe a dismisura. Tre parole per riassumere una filosofia di vita che ho fatto mia, soprattutto nei momenti critici. Se qualcuno intelligente mi muove critiche serie, fondate, motivate, sono il primo a farle mie. Se, a muoverle, è qualcuno che non è intelligente, non me ne curo. Non ho mai perso un secondo di sonno per il calcio: ci sono cose più importanti». Per la cronaca, nell’80 ci pensò Giovanni Paolo II a fare giustizia, proclamando San Gennaro patrono ufficiale di Napoli e della Campania. «A Napoli sono stato giocatore, allenatore e anche dirigente, quando scelsi Lippi prima e Simoni poi. In nessuna altra parte al mondo ho incontrato la cultura, la signorilità, l’intelligenza che ho trovato a Napoli, dove ho stretto amicizie lunghe una vita, come con Enrico Verga, dirigente del club. Napoli mi ha arricchito e mi ha dato moltissimo. Ho nella testa e nel cuore il coro che i 70 mila del San Paolo mi dedicarono. Accadde nel maggio dell‘88, in occasione dell’ultima partita con la Samp, al culmine del periodo in cui c’era chi non mi voleva più in panchina. Si ricorda il famoso comunicato dei giocatori contro di me?». Certo che me lo ricordo. «A parte il fatto che era sgrammaticato, alla vigilia della gara qualcuno mi disse che allo stadio ci sarebbe stata una massiccia contestazione dei tifosi contro di me. Quando entrai in campo, invece, il San Paolo cominciò a scandire ripetutamente il mio nome. Non l’ho mai dimenticato».
SARRI E L’EUROPA LEAGUE. Osservo che, anche a Napoli non hanno mai dimenticato Bianchi. Gli occhi si iluminano: «Io sono di parte e la premessa è doverosa. Ma non è per questo che affermo: Napoli, è l’anno buono. E non per la legge statistica dei grandi numeri, ma per i grandi numeri della squadra di Sarri. Non lo conosco, devo dire che è bravissimo E’ un piacere vedere in azione il suo collettivo. Giocano tutti a memoria. Il calcio è una cosa semplice: quando uno ha il palllone e tutti gli altri restano fermi, non vai da nessuna parte; quando uno ha il pallone e gli altri si muovono sapendo ciò che devono fare, è tutta un’altra musica. E’ quella che suona il Napoli. Quest’anno gioca per vincere lo scudetto. Negli ultimi cinque anni il Napoli è arrivato duevolte secondo, due volte terzo, una volta quinto. Quando si acquisisce questa continuità di piazzamenti, lo scudetto non diventa più una chimera. Anche se la rivale si chiama Juve, alla quale vanno riconosciuti grandi meriti: è l’unica società italiana di livello europeo, è abituata vincere, ha un organico fortemente competitivo. Ma, oggi,a Napoli, sono cambiate molte cose. L’ambiente è unito, la stessa eliminazione dalla Champions League è stata assorbita bene. Ricordo che, quando perdevamo una partita di troppo, Pesaola faceva finta di dare le dimissioni così noi lo invitavamo a ritirarle. Nel settembre dell’86, quando Diego sbagliò il rigore decisivo e il Tolosa ci eliminò nel primo turno di Coppa Uefa, le critiche furono talmente aspre che, rientrato a Napoli, dissi alla mia famiglia: tornate a Bergamo. Adesso c’è il Lipsia e si discute tanto se Sarri debba trascurare l’Europa League, ma in questo momento l’Europa League non conta niente rispetto al campionato. Se un giocatore riporta anche solo un microtrauma, non ha il tempo per recuperare visto che si va in campo ogni tre giorni. E la Juve, per contro, ha una rosa tale che le permette di fronteggiare ogni emergenza».
La Redazione