L’intervista – Ciro Ferrara: “La notte magica che avrei voluto giocare al San Paolo”

Il rapporto di Ciro Ferrara con la Nazionale non è stato come quello che il difensore napoletano ha avuto nelle squadre di club. Tempi sbagliati e infortuni nei momenti “giusti”. L’esordio con la rappresentativa italiaca avviene quando sulla panchina c’è Azeglio Vicini. «Mister Vicini entra nella stanza mia e di De Napoli e dice: Ciro, domani tocca a te». Quel domani era Italia-Argentina, amichevole a Zurigo, ovvero il debutto di Ferrara in Nazionale. Tempesta di emozioni che si scatenano in un attimo. «Sì ma non finisce qui. Io lo guardo, sono felicissimo dentro».
E lui? «Sta per uscire dalla stanza, si volta un attimo e mi fa: a proposito, devi marcare Diego».
Il tuo amico, il tuo compagno di squadra, il tuo capitano. «Risposi con una frase del tipo: ah vabbe’, una sciocchezza mister, che vuole che sia per me marcare Maradona?».
Andò abbastanza bene. «Un po’ di naturale emozione all’inizio ma passò in fretta. Ogni tanto buttavo un occhio alla panchina e lui mi faceva segno di stare calmo e di giocare in maniera semplice, come sapevo fare».
Insomma, questo è il ricordo più affettuoso che Ciro Ferrara porta nel cuore a proposito dell’ex ct scomparso ieri. Ma non l’unico. «Fu una stagione strepitosa per me: lo scudetto con il Napoli, il Mondiale vinto con la nazionale militare e la prima convocazione nel club Italia. Fu appena l’inizio perché con Vicini ho trascorso tre anni indimenticabili».
In una parola come lo definirebbe? «Un allenatore e un uomo di altri tempi. Un vero signore, in campo e fuori».
Cosa aveva di così magico quella Nazionale? «Il fascino, l’emozione di farne parte. Per quelli che erano convocati, era un vero piacere ritrovarsi a Coverciano, una festa, l’ambiente era unico, familiare, divertente e Vicini possedeva la grande dote di saperci compattare. In Nazionale non conoscevamo la parola tensione e lui riusciva ad addolcire gli attriti tra i giocatori di club diversi. Le liti del campionato scomparivano all’improvviso, sembravano lontanissime nel tempo».
Era il gruppo di Vialli, Mancini, Baresi, Zenga, Baggio. «Quanta qualità. L’empatia con i tifosi italiani nacque spontanea perché quella squadra giocava benissimo e faceva divertire».
Che allenatore era Vicini? «Il perfetto selezionatore. Lui ha fatto il tecnico quasi sempre a Coverciano con le varie nazionali».
Il suo gioiello fu l’Under 21 che poi sarebbe diventata super. «Esatto, un capolavoro, il suo marchio di fabbrica. Trasferì quel gruppo meraviglioso nella Nazionale maggiore come una tappa inevitabile, un percorso logico senza traumi e difficoltà di alcun tipo».
Per molti, fu l’erede naturale di Bearzot. «Entrambi avevano questa capacità enorme di creare una squadra-famiglia. Bearzot vinse il Mondiale compattando innanzitutto il suo gruppo che era sempre al centro di polemiche. Vicini per noi era il tecnico e il secondo padre».
La favola di quella squadra si eclissò il 3 luglio 1990. «Sì, la sera di Italia-Argentina. Purtroppo il destino di molti allenatori è legato a una partita, o addirittura a qualche episodio. Semplicemente finì quel ciclo. Vincere il Mondiale sarebbe stata la conseguenza naturale e meritata ma il calcio non si piega mai a leggi già scritte».
Ci credevate? «Sì, prendemmo coscienza della nostra forza strada facendo. Arrivati ai quarti immaginavamo di potercela fare, si giocava in casa e questo ci dava una grande forza. Così come sapevamo che se avessimo superato l’ostacolo Argentina, sarebbe stato quasi impossibile fallire la finale».
Non far giocare Ferrara proprio nel suo San Paolo, fu uno sgarbo non da poco. «La verità? Ci rimasi molto male, ora lo posso dire. Mi aspettavo di scendere in campo e, perché no, di marcare ancora una volta Diego. Ma non lo presi come un torto personale, non era facile mettersi nei suoi panni».
A livello di scelte di formazione? «Io ero l’ultimo arrivato. Davanti avevo gente che si chiamavano Baresi, Bergomi, Ferri, Maldini, Vierchowod. Ovunque ti giravi, avevi a che fare con i più grandi difensori della scuola italiana. Qualcuno doveva essere scontentato e quella volta toccò al sottoscritto».
Avete più parlato di quel match che ci negò la finale? «Sì, con lui come con gli altri ragazzi del gruppo. A parte le tante cose sulle quali si è romanzato, resta il fatto che per noi quella fu una gara stregata. Ci andò tutto storto mentre all’Argentina girarono meglio gli episodi decisivi, compresi i rigori».
Si decise tutto dagli undici metri, alla fine. «Ma è anche vero che il pareggio di Caniggia fu una mazzata per noi».
È stato un grande allenatore però ha vinto quasi niente. «Lascia in tutti quelli che ha conosciuto un bagaglio eccezionale di ricordi, oltre che lezioni di vita. Ha avuto un’importanza calcistica fondamentale per molti di noi, mi metto anche io ovviamente in questa lunga schiera di calciatori. Se poi lo vogliamo etichettare con il metro di giudizio con il quale si guarda e si critica il calcio di oggi, allora c’è chi ricorderà Vicini solo per non aver trionfato in quel Mondiale».
Restano gli insegnamenti dell’uomo, soprattutto. «Aveva un modo unico nel non disperdere le energie positive, faceva venire a tutti la voglia di andare in Nazionale e di restare uniti, aveva carisma da vendere. Non mi risulta che oggi nel club Italia si respiri la stessa atmosfera. E poi la sua squadra divertiva, come poche altre nella storia. Magari non sono state notti vincenti ma vi giuro che erano proprio magiche».

Fonte: Il Mattino

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