Benitez andò via dicendo: «Il calcio italiano è una merda». Continua il suo sfogo su Repubblica

Andò via sbattendo la porta, due anni e mezzo fa. «Il calcio italiano è una merda». Ma dall’enorme cassetto di Rafael Benitez Maudes, sbollita l’amarezza di allora, riaffiorano adesso soltanto i bei ricordi. «Fu uno sfogo di pancia, legato a un singolo episodio di campo, a Parma. I nostri avversari facevano ostruzionismo e l’arbitro era rimasto a guardare, senza tutelare il mio Napoli. Tutto qui: non si trattò di un giudizio in generale sul vostro football, di cui ho invece un grande rispetto». Rafa ha voltato pagina, si è lasciato alle spalle anche la deludente parentesi con il Real Madrid («Non mi hanno dato abbastanza tempo») e sta tornando protagonista nella Premier League, al timone del neopromosso Newcastle. «Abbiamo vinto la Championship, la serie B, e ora siamo al settimo posto della classifica, con la squadra più giovane del campionato inglese e la società in vendita. Non male, insomma». Nella tranquilla contea di Tyne, cinquecento chilometri a nord di Londra, Mister 13 titoli (tra i quali una Champions e due Europa League, oltre alla Coppa del Mondo per club 2010 conquistata sulla panchina dell’Inter) ha però ritrovato soprattutto il gusto di lavorare a modo suo, in autonomia. «Stiamo rimettendo a posto il Training Center, ho fatto dare una mano di vernice più chiara alle pareti, per renderle luminose». Il fiore all’occhiello sono i campi, ben sei: uno dei quali solo per i portieri, riscaldati e illuminati da riflettori di ultima generazione. Non c’è il sole e bisogna arrangiarsi. Benitez, davvero non ha nostalgia dell’Italia? «Dell’Italia ho dei meravigliosi ricordi e ci sono stato molto bene, lo ripeto. Ma non tanto da sentirne la nostalgia, che posso provare al massimo per la mia Spagna». Qualche nervo scoperto è rimasto, allora… «Ma no, le mie soddisfazioni me le sono tolte anche in Italia. All’Inter ho vinto due titoli in soli sei mesi e poi ne ho conquistati altrettanti con il Napoli. Sono dei periodi di cui ho un ottimo ricordo e che non rinnego». Con Milano il feeling non è mai sbocciato, lo ammetta. «È vero, l’ho vissuta meno. La ricordo come una città più dispersiva e non ho avuto quasi mai l’opportunità di girarla. Abitavo fuori e la squadra in campionato non stava facendo bene. L’Inter aveva in organico 12 giocatori oltre i trent’anni e c’era bisogno di cambiare, ma le mie richieste rimasero inascoltate da Moratti. Dopo la rivoluzione l’hanno fatta, però: quando io ero già andato via. Adesso, con i cinesi, possono lottare contro Juve e Napoli». Napoli, parliamone. Cosa le è rimasto dei due anni sulla panchina azzurra? «Il legame con la città, prima di tutto. Napoli è simile alla Spagna, dall’architettura al modo di vivere. Mi sono sentito subito a casa. E anche in campo abbiamo lavorato bene, soprattutto durante la prima stagione. Il risultato della seconda fu compromesso da un rigore sbagliato nell’ultima sfida, che ci fece scivolare dal terzo al quinto posto. Il vero errore era stato già compiuto a monte però, sul mercato. Bastava prendere un giocatore, anzi trattenerlo. Mi riferisco al nostro portiere, che era anche il leader della squadra. Pure in questo caso i fatti mi hanno dato ragione: Reina è ritornato in maglia azzurra e sta facendo di nuovo la differenza». Sarebbe andato via lo stesso dal Napoli, senza la chiamata del Real? «Sì, certo: per lavorare insieme e farlo bene bisogna essere tutti convinti, al 100 per 100. Era il momento giusto per cambiare, per me e anche per la società. Il mio tempo con il Napoli era finito e sarei andato via lo stesso, a prescindere dall’offerta del Real Madrid. Se l’offerta le fosse arrivata dalla Juve? «Domanda tendenziosa, ma è un problema che non si è mai posto, visto che da Torino non mi hanno chiamato…». Alla Juve è andato Higuain. Se lo aspettava? «La scelta di Gonzalo mi ha stupito ed effettivamente è stata un po’ strana, per la rivalità che c’è tra le due squadre e pure tra le città. Ma è stata una sua decisione e io devo rispettarla: non importa se mi sia piaciuta o no». Le piace cos’è diventato il Napoli dopo di lei? «Sono rimasto un tifoso del Napoli e appena posso lo guardo alla tv. Ho seguito le ultime partite con la Roma, il Manchester City e l’Inter. Mi piace soprattutto vedere i progressi dei tanti giocatori che c’erano già con me e continuano a scendere in campo con la stessa mentalità offensiva. Ora hanno una convinzione nei loro mezzi molto maggiore, visto che ormai vivono in Italia da tanti anni e si sono ambientati meglio». Cosa ha in più questo Napoli rispetto al suo? «Anche con me la squadra segnava tanti gol, mentre in difesa ci mancava qualcosa e soprattutto nella seconda stagione pagammo a caro prezzo alcuni errori individuali. Sarri ha lavorato parecchio sulla solidità del reparto arretrato e lo ha fatto molto bene, agevolato pure dall’affiatamento di giocatori come Albiol, Koulibaly e Ghoulam, che ormai si conoscono a memoria. L’esperienza è un bel vantaggio. E anche avere Reina alle spalle». Lo sente ancora, Reina? «Sono rimasto in contatto con parecchi giocatori e pure con qualche dipendente del Napoli. So che cosa fanno, mi tengo informato». E con De Laurentiis? «Non l’ho più sentito, non è capitato». Di Sarri cosa pensa? «È un bravo allenatore e nel Napoli ha trovato la squadra giusta per fare quello che aveva in mente. Sta lavorando molto sulla difesa e sul pressing alto, che nella serie A si possono fare e in altri campionati no, per esempio in quello inglese. Si sono viste le difficoltà della difesa azzurra contro il City, in una partita giocata su ritmi diversi…». Bel gioco o risultati: lei da che parte sta? «Servono entrambi. Se la squadra gioca bene, ci sono più possibilità di vincere. Ma il ricamo non deve mai rimanere fine a sé stesso o esasperato, solo per sentirsi alla moda. Il possesso palla va sempre finalizzato alla ricerca del gol, altrimenti ha poco senso». Vede similitudini tra il Napoli e quel che accadde a Leicester? «No. Il Napoli è più forte del Leicester, che fu bravo ad approfittare di una stagione particolare, con le grandi al di sotto dei loro standard. Il Napoli ha un organico più competitivo e negli ultimi dieci anni si è piazzato spesso tra le prime cinque. Ora è pronto per vincere. Ma tutto l’ambiente, a cominciare dalla squadra, deve che una trasferta, il viaggio della Juventus a San Siro è un’unità di misura e potrà aiutare a decifrare con meno approssimazioni una squadra fondata sulla contraddizioni, a cominciare dalla più evidente: spesso non piace, men che meno al suo allenatore, però ha il secondo miglior attacco d’Europa, una classifica interessante e ambizioni giustamente smisurate”.

Fonte: Repubblica

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