Il sogno si realizzò nei giorni del secondo scudetto. Francesco Serao, commercialista (già presidente del consiglio nazionale), pronipote della scrittrice e giornalista Matilde che fondò Il Mattino, era un tifoso appassionato del Napoli. Tifoso vip perché seguiva le trasferte della squadra in Italia e in Europa non a bordo di un’auto o di un pullman ma seduto sull’aereo privato di Franco Ambrosio, il re del grano, suo cliente. L’imprenditore, tragicamente scomparso otto anni fa, aveva creato il «Setteazzurro», un gruppo di amici che saliva su quell’aereo e raggiungeva dovunque la squadra. Tutti erano legati a Corrado Ferlaino, il presidente degli scudetti, e proprio dall’ingegnere arrivò quella telefonata, un po’ spiazzante a fine aprile del 90. «Francesco, vuoi diventare vicepresidente del Napoli?».
A Serao, che portava la pochette azzurra nel taschino della giacca a conferma del suo profondo affetto per la squadra, non sembrò vero. Lui nella stanza dei bottoni di piazza dei Martiri, negli spogliatoi del Centro Paradiso e del San Paolo, accanto a Maradona e agli altri campioni. Li aveva visti molto da vicino grazie alla posizione privilegiata di amico di Ambrosio e di Ferlaino, però fare il dirigente sarebbe stata tutt’altra cosa. E poi vicepresidente, anzi vicepresidente operativo perché un vicepresidente nel Napoli già c’era, Gianni Punzo, il fondatore del Cis di Nola. Ferlaino scelse Serao perché lo giudicò competente e appassionato, oltre che amico fidato. L’idea dell’ingegnere, dopo aver vinto il secondo scudetto e aver rinunciato alla tentazione di cedere il club, era di trasferirsi a Roma e diversificare i suoi interessi. Durò poco il soggiorno nella capitale perché il richiamo del Napoli e di Napoli era fortissimo. E poi, a pochi mesi dallo scudetto, vi sarebbe stata la clamorosa rottura con colui che era il simbolo della squadra: Maradona.
Nel libro «I miei anni azzurri: quando c’era Maradona…» (prefazioni di Ferlaino e del giornalista Toni Iavarone) Serao, entrato e uscito dal Napoli e dal calcio in poco più di un anno (poi nell’estate del 2004 Luciano Gaucci, interessato al club, gli avrebbe chiesto una consulenza), ricostruisce quei giorni da dirigente e in particolare il rapporto con Diego. A cui, ricorda, consegnò la Coppa Uefa vinta il 17 maggio dell’89 a Stoccarda. Era andato in Germania a bordo dell’aereo di Ambrosio e sul volo di ritorno c’erano anche Ferlaino e il trofeo. Gli aerei dei tifosi vip e della squadra avevano toccato contemporaneamente la pista di Capodichino. All’ingegnere comunicarono che Maradona non sarebbe sceso se non avesse avuto la Coppa Uefa da alzare nel cielo di Napoli sul primo gradino della scaletta. «Francesco, vai tu e portagliela». E Serao corse verso l’aereo della squadra per consegnare il trofeo a Diego. Il loro primo contatto. Si sarebbero poi incontrati alla vigilia di Italia-Argentina, semifinale dei Mondiali 90 al San Paolo, e nei mesi in cui il commercialista diventò l’alter ego di Ferlaino negli uffici e negli spogliatoi. Non furono solo gioie, anzi. A fine agosto del 90, quattro mesi dopo il secondo scudetto, Serao comunicò a Maradona che il Napoli lo aveva multato di 10 milioni di lire perché lui e alcuni compagni avevano lasciato il ritiro di Imola per andare in una discoteca della riviera romagnola. E poi la vicenda di Mosca, a metà tra dramma e farsa, con Maradona che non partì con la squadra per la partita di Coppa dei Campioni e neanche riuscì a salire sul volo privato con Serao il giorno dopo, ma ne noleggiò un altro per raggiungere la squadra e giocare. Per punizione, vide quasi tutta la partita dalla panchina, poi l’allenatore Bigon lo schierò contro lo Spartak Mosca ma non bastò per superare il turno.
I colpi di testa, provocati dalla cocaina ma anche dalla voglia di lasciare Napoli, furono tanti. Il Napoli chiese alla Lega Calcio di escludere Maradona dalla rosa e, quando arrivò l’autorizzazione, fu Serao a presentarsi negli spogliatoi. Alla presenza dei compagni e di Bigon comunicò la sospensione a Diego. Il capitano lo guardò negli occhi e chiese: «Ok, ma domenica contro il Parma gioco?». Era questo il capitano, lo potevi detestare per alcuni atteggiamenti arroganti, ma non potevi non amarlo. A distanza di tanti anni, Serao confida un rimpianto: Maradona avrebbe dovuto essere tutelato, bisognava respingere le anime nere che lo circondavano a Napoli.
L’ex vicepresidente operativo, dimessosi nel 91 perché l’incarico era stato ritenuto incompatibile con quello di presidente del collegio dei revisori dei conti del Comune, racconta il suo rapporto con Diego e gli altri personaggi di quel tempo, tra cui il direttore generale Luciano Moggi, che faticava a comprendere la differenza tra lui, dipendente, e Serao, dirigente. «Ma aveva una grande simpatia. Un giorno mi disse che aveva trovato l’accordo per il rinnovo del contratto di Mauro e io gli chiesi chi fosse il procuratore del giocatore. Rispose: sono io. Forse quel giorno gli venne in mente di creare la Gea».La Redazione