E che faceva? Faceva il fenomeno, Ruud Krol. Usciva dall’area come il divo di Hollywood esce dalla doccia, a piedi nudi sul parquet di mogano chiaro, un dio greco dalla chioma fluente, avvolto in un morbido accappatoio bianco, inebriato da essenze esotiche si faceva largo tra avversari incattiviti dalla vita ma rispettosi dell’immensa sua classe, per questo i tapini si scansavano, qualcuno pure accennava un inchino.
Quando il ds Totonno Juliano sborsò per il suo acquisto 110 milioni di vecchie lire e gli fece il contratto, Krol aveva trentuno anni, il meglio era già passato, gli davano del finito. Ruud, fedele alla buona tradizione dell’olandese mercenario, stava grattando gli ultimi assegni in Canada, nel Vancouver Whitecaps. Le foto che arrivarono in Italia quell’estate raccontavano di un viveur rilassato al tavolino di un bar, nell’ora definitiva del tramonto.
Aveva cominciato negli anni ‘60 da terzino sinistro, ma avrebbe potuto giocare ovunque. Con Ajax e Olanda, con Cruijff e Neeskens, aveva rivoluzionato il calcio che con loro divenne «totale», vincendo molto, altrettanto scialacquando, sull’altare di una bellezza seminata gratis. Era un fuoriclasse assoluto, uno dei difensori più completi del dopoguerra. Il fisico – 184 centimetri per 80 kg. – lo aiutava: in un calcio di giocatori «normali». Bruno Pizzul lo chiamava «Sua Maestà». Rudi era il concetto di eleganza applicato al calcio. Ai tanti buzzurri che si muovono disarticolati oggi sulle fasce laterali dei nostri campi di serie A, basterebbe far vedere qualche filmato di Krol per convincerli a smettere, causa manifesta inferiorità, seppur posticcia e tardiva.
La sua prima stagione fu strabiliante. Dell’urlo «Rudi-Rudi» che in quegli anni accendeva il San Paolo, ancora oggi vi è l’eco. La sua popolarità raggiunse vette altissime. Di una bellezza normanna, portava i capelli lunghi, i basettoni anni ‘70, si faceva carico dell’aria sgualcita di chi la sa lunga, indossava pantaloni a zampa di elefante, inevitabile la sigaretta tra le labbra. Girava in Bmw, fece strage di cuori, pattuglie di ragazze da combattimento lo accerchiavano, all’Hotel Excelsior. Si concedeva volentieri, per naturale inclinazione alle gioie della vita. Il Napoli di Marchesi quell’anno arrivò terzo ma lottò fino alla fine per lo scudetto, che perse prima per uno sciagurato autogol di Ferrario, al San Paolo in una domenica di tristi presagi contro il Perugia già retrocesso; e poi davanti a 80.000 testimoni, ferito da un altro autogol, stavolta di Guidetti, stavolta contro la Juventus.
Krol rimase a Napoli quattro anni. 107 presenze, un solo gol, a Brescia, il primo anno, in una rara sortita offensiva, ma non era quello il suo mestiere. Sfiorì a poco a poco, appassì negli anni consegnadosi all’inerzia. A trentacinque anni Ruud Krol si lasciò il Vesuvio che singhiozzava commozione e lava alle sue spalle e chiuse la carriera a Cannes, tappeti rossi e dame in tiro sulla Croisette, destinazione persino banale, per il più cinematografico dei campioni che in quegli anni vennero in Italia a miracol mostrare.