Adesso ha il compito di ricostruire l’Inter, squadra che viene da qualche anno turbolento. Si riparte dalla sua esperienza, quella di Walter Sabatini che rilascia un’intervista a 360° alle pagine del Corriere dello Sport.
Sabatini, perché luglio è per lei il mese più difficile? «Perché ho sempre la sensazione che avrei potuto fare meglio. E’ l’identico stato d’animo che si ha quando al liceo devi fare la traduzione di latino o il compito di matematica e mancano cinque minuti al suono della campanella».
Cosa c’è di bello nel suo lavoro? «Un’emozione costante. Io vivo con grande partecipazione tutte le cose, sia le cose reali, sia tutto quello che gravita intorno al calcio. Per esempio quando un calciatore sbaglia uno stop mi sento in colpa come se ne fossi responsabile. Sento di dover rispondere anche per l’erba del campo tagliata male. Non ho vie di fuga, non ho scampo».
Qual è il ruolo più importante in una squadra? Quello in cui non si può sbagliare? «L’allenatore, prima di tutto. L’allenatore è la vera guida perché, al di là dei principi tecnico-tattici, è lui il vero psicologo dei calciatori. Adesso va molto di moda la figura del sostegno esterno fatto da specialisti, ma in realtà il vero psicologo è l’allenatore che, con lo sguardo, cambia lo stato d’animo di un giocatore o di una squadra».
Qual è l’allenatore più bravo con cui lei ha lavorato fin qui? «Ho ricordi straordinari di allenatori che non hanno fatto strada, che avevano tante qualità che però non hanno coinciso con la fortuna professionale. Io scrivo in bacheca in grande, perché lo leggano tutti, soprattutto i calciatori, che la fortuna è un’attitudine e non possiamo invocare il caso quando si manifesta. E’ una nostra attitudine, l’abbiamo dentro. Si scrive fortuna, ma si chiama intelligenza e carattere».
Il giocatore più intelligente con il quale ha avuto a che fare? «Le dirò sinceramente che c’è un’involuzione della figura. Perché li abbiamo educati a una relazione sociale che parte dai social network, dai tatuaggi, dalle cose effimere, stupide. Un mondo virtuale, senza il minimo decoro. Ormai sono tutti in questa situazione. Ho avuto calciatori pazzeschi nella loro qualità che si sono fatti divorare dal vizio, dalla stupidità, dalla distrazione. Ne cito uno perché mi è sempre rimasto impresso: Fabian O’Neill. Fabian O’Neill era un fenomeno soprannaturale che poi si è fatto inghiottire dal suo disagio».
Invece il più intelligente, quello con il quale andrebbe a cena? «Io non ho l’abitudine di frequentare i calciatori a cena. Perché il mio rapporto con i calciatori rimane fugace. Faccio una battuta, una carezza per comunicare qualcosa, uno stato d’animo, però evito sempre lunghi colloqui, perché sono dannosi, nervosi. Però se mi chiede il giocatore più intelligente che abbia incontrato non fatico a farle il nome di Paolo Sollier. Talento in campo e intelligenza fuori».
Lei ha lavorato con gli americani, ora con i cinesi e prima con Zamparini e altri. Quali sono le differenze tra queste proprietà? «Ho avuto il presidente padrone, il presidente divora allenatori, il presidente proprietario assoluto. Ho avuto Gaucci, Zamparini, lo stesso Lotito. Però devo dire che quando mi trovo in un rapporto diretto, anche se conflittuale, mi trovo comunque bene. Con gli altri i rapporti sono più complicati perché richiedono una comunicazione costante, fatta di tecnicismi, di piccoli racconti, di una sorta di resoconto quotidiano che non sono capace di fare neanche con me stesso. E’ molto più complicata la relazione con la proprietà straniera. Il problema è che noi abbiamo la presunzione di pensare che la nostra cultura occidentale, il nostro modo di vedere, inquadrare un problema, decidere sia quello più giusto, persino l’unico. E a volte uno prova un disagio enorme, non capisce i silenzi, le mancate risposte. Sto cercando di comprendere come i cinesi si mettono in rapporto con la vita e le cose per capire come poi affronteranno i problemi del calcio».
Cosa serve all’Inter per tornare l’Inter? «Intanto, come giustamente ha sottolineato Spalletti, serve un pensiero e un orgoglio di appartenenza. Chi gioca in nerazzurro deve sempre ricordare cosa è realmente l’Inter nel panorama internazionale. La rosa è fatta di tutti buoni calciatori, ma forse la caratterizzazione è mancata e con essa l’integrazione tatticamente giusta. Prima di tutto dobbiamo lavorare su questo. Se ci riusciremo faremo bene, anche se sarà una campagna acquisti molto difficile».
Perché difficile? «Perché si sta vivendo dentro una bolla speculativa molto pericolosa. Oggi, per i calciatori in Italia, girano dei prezzi insostenibili. Quando scatta una clausola da 220 milioni, nonostante possa riguardare un top player, si produce un effetto che droga tutti i prezzi».
C’è qualcosa di vero nell’interesse dell’Inter per Kroos o è una balla ? «Una balla. E’ un’ipotesi che non ha nessun fondamento. E’ un auspicio dei giornali del Nord, ma non ha nessun fondamento».
Cosa pensa della vicenda Bonucci? «Francamente è sorprendente. L’ho sempre pensato come un giocatore istituzionale della Juve, ma è una vicenda comprensibile nel calcio di oggi che divora calciatori, dirigenti, allenatori. E’ un disastro che non riusciamo a percepire noi, ma neanche i calciatori che vincono e sono al sicuro, in una società come la Juventus. La decisione di Bonucci può essere solo figlia di un suo disagio. Non può essere una scelta di altra natura».
Cosa non ha funzionato, alla fine, nel rapporto tra lei e la Roma? «Cosa non ha funzionato nel rapporto tra me e Pallotta, potrei dire. Nella Roma ha funzionato tutto perché la Roma è stata la mia vita. La vivo dentro come una cosa mia, irripetibile. Con Pallotta le cose hanno funzionato benissimo per un po’ di tempo, meno bene dopo. Forse io mi sono posto nella maniera sbagliata, ho creduto che la Roma potesse essere la mia. Qualche errore l’ho fatto e a un certo punto era giusto che io cambiassi. Anche mio figlio che ha dodici anni non mi ha mai perdonato questa scelta. Lui va a letto con la maglietta di Totti, puntualmente. Questo sentimento di amore totale io l’ho condiviso silenziosamente con moltissime persone ma è stato un sentimento talmente potente che non sono riuscito a condividerlo con Pallotta. Questo è il senso della cosa».
Della vicenda di Totti cosa pensa? «Penso che con l’uscita di scena di Francesco viene meno un’idea tutta tecnica e tutta poetica del calcio. Non è solo un campione che smette: ci saranno delle giocate, delle soluzioni tecniche che saranno estinte perché vanno via con lui e questo è un danno per il calcio, inevitabile ma incredibile. Penso che Totti adesso debba trovare la forza di accantonare il passato e accettare l’idea che nella vita c’è anche qualcos’altro, cosa molto difficile per lui. Anche perché io ho colto nei miei colloqui con lui una reale voglia, quasi adolescenziale, di continuare a giocare al calcio. E contro quella si lotta veramente male».
Lei ha scoperto molti giocatori: Nainggolan, Lichtsteiner, Gattuso, Pastore, Ilicic. Come si individua il segno del futuro campione? «Il giocatore mi deve far male quando lo vedo, mi deve colpire. Si possono e si devono fare le analisi statistiche, guardare i dati. Ma il campione lo vedi perché ti produce una sorta di sofferenza interiore, una scudisciata, una bottiglia che si rompe, qualcosa di unico, che trascende la normalità. Il buon calcio lo fanno i buoni calciatori, dovremmo averlo imparato».
Gerson, Doumbia, Iturbe non sono riusciti. Al contrario di Salah, per esempio, che ha fruttato una lauta plusvalenza… «Quando girano trecento giocatori, dieci possono non riuscire. Gerson fa in tempo, è del ’97, ha avuto delle difficoltà ma ha qualità. Iturbe è stato invece vittima di un’involuzione che nessuno ha potuto prevedere. Si è seduto in un ruolo di comprimario e questa è una cosa che non mi aspettavo. Doumbia non è un giocatore sbagliato, il più bel gol della Champions League dell’anno scorso lo ha fatto lui a Londra. Sono stati errati i tempi e i modi e me ne assumo la responsabilità».
C’è un top player del calcio mondiale che lei pensa possa venire in Italia? «No».
Perché? «Nessuna società italiana ha la forza di farlo. Noi dobbiamo lavorare su altro livello, su un secondo mercato e individuare il talento prima. Una volta affermato e conclamato, non viene più. E’ così».
Qual è il male del calcio italiano? «Dovrei dire una cosa antipatica. Nel calcio italiano albergano troppe persone. E’ una sorta di caravanserraglio in cui tutti cercano il loro strapuntino. Approfittando di un sistema informativo drogato, molte persone sgomitano senza titolo per ritagliarsi un ruolo. Aggiunga che una volta c’era Brera, il raccontatore di storie, il calcio diventava anche letteratura godibile. Oggi le telecamere frugano da tutte le parti, e l’informazione non diventa più racconto ma opinione cangiante perché tutti hanno la loro, tutti la urlano. E’ un calcio, come la società, emotivo…».
Lei è stato un giocatore tanto forte quanto sfortunato, ha avuto molti incidenti.. «E stupido, anche».
Perché stupido? «Ero un genio calcistico ma non capivo il calcio. Avevo qualità tecniche e velocità ma non capivo il calcio. Ho giocato il calcio della piazzetta per tutta la vita. Il calcio della piazzetta è fondamentale però a un certo punto si abbandona, io invece l’ho lasciato a ventinove anni. Sono stato un calciatore della piazzetta fino a quando non ho capito quanto fossi ridicolo e ho fatto la scelta più giusta della mia vita, smettere a ventinove anni e fare qualcos’altro. Ho preferito essere un dirigente giovane che un calciatore vecchio».
Come ricorda il giorno di Renato Curi? «Non è passato un solo giorno in cui non ho dedicato un pensiero a Renato Curi. E’ stata, nella mia vita, la tragedia più grande. Vedere stramazzare un tuo compagno di squadra in campo, non rialzarsi, è terribile. Ho capito subito che sarebbe morto e ancora oggi sento un senso di ribellione verso questa cosa. Renato Curi era un giocatore fantastico e, anche se più grande, era il mio fratello più piccolo, perché era più basso. Lui si preoccupava perché ero sempre infortunato e un giorno mi regalò un numero tredici d’oro dicendo: “Tu hai bisogno di questo regalo, perché hai bisogno di fortuna”. La settimana dopo la fortuna ha abbandonato lui. E’ morto in un campo di calcio. Sua figlia si è sposata qualche giorno fa, non sono potuto andare perché ero in Cina e ho sofferto molto. Ho deciso però che, dopo quaranta anni, consegnerò a lei questo numero tredici d’oro. E’ giusto che l’abbia Sabina Curi».
C’è un giocatore nel mondo che lei vorrebbe avere? «Io avrei voluto con me Buffon. Questo contro tutti i miei principi. Io con la formazione comincio sempre dal numero 2, il numero 1 lo tengo come accessorio. Però nel tempo ho capito quanto questo ragazzo possa avere inciso in tutti i successi della sua squadra e della Nazionale stessa».
Chi vincerà lo scudetto? «Il Napoli».
Che cosa è il calcio per lei?