Josè, il killer con il sorriso

da genitori italiani emigrati lì anni prima. Di cognome fa Altafini, di nomi ne ha almeno un paio, Josè e Joao. Ma quel che più conta è che ha l’apelido: lo chiamano “Mazola”. Forse per via del capello biondastro e della mascella squadrata, dicono assomigli al grande Valentino, capitano del Grande Torino scomparso a Superga. Può essere. Il soprannome da quelle parti è fondamentale per chi intende giocare a pallone, è una garanzia. Il debutto. Altafini “Mazola” debutta giovanissimo nel Palmeiras, la squadra degli italo-brasiliani. Segna una caterva di gol e fila dritto in Nazionale, quella che nel 1958 conquisterà il suo primo titolo mondiale in Svezia. Tra i campioni c’è anche lui, tre presenze e due reti, prima di lasciare il posto al diciottenne Pelè. Dopo i campionati del mondo, per Josè c’è la maglia del Milan che lo aveva “visto e preso” durante le amichevoli che il Brasile aveva giocato in Italia prima di volare in Svezia. L’inizio in rossonero è da urlo. Per lui c’è anche la Nazionale italiana: gioca come oriundo, ma rimane travolto dal fallimento di Cile ‘62. Con il Milan rimane sette anni, dal 1958 al 1965. Sette stagioni straripanti di gol (120 solo in campionato), con due scudetti e la Coppa dei Campioni nel 1963, la prima di una squadra italiana, vinta in rimonta sul Benfica di Eusebio per 2-1. Josè Altafini, ormai non più Mazola, è l’eroe di Wembley con la doppietta decisiva. Il secondo gol arriva dopo una fuga di cinquanta metri. «Col cavolo che mi prendete» è la frase che grida ai difensori portoghesi, la stessa che da bambino urla quando scappa di corsa per i campi dopo aver rubato la frutta, un po’ per gioco, un po’ per necessità. Nel 1965 il Napoli gli dà dei buoni soldi. L’aria a Milano si era fatta pesante. Pupillo di Rocco (che lo chiamava Jòse, con l’accento sulla o e al quale una volta fece lo scherzo di uscire tutto nudo dal suo armadietto), mai amato invece da Gipo Viani, il direttore tecnico di quel Milan che, un giorno, lo battezzò “Coniglio”, nomignolo che Altafini ha sempre ripudiato. Meglio il sole di Napoli, dunque. E meglio ancora quando gli dicono dell’acquisto di Sivori a cui si raccomanda di fargli fare tanti gol. Con il Cabezon a fianco, Altafini è sempre in doppia cifra, poi allenta la presa, arrivando comunque a segnare 71 reti nei suoi sette anni napoletani. E’ il 1972, il vecchio Josè già Mazola ha 34 anni quando lo chiama Giampiero Boniperti. Vieni alla Juve, ti pago per quanto giochi. Contratto a gettone, una sorta di juke-box del gol. Altafini accetta. Gli piace l’idea. Lo stuzzica giocare per la Juventus, per lo scudetto, per la Coppa dei Campioni. Lui, dall’alto della sua classe e dell’innato senso del gol, si cala alla perfezione nel ruolo di “tredicesimo” decisivo e letale. Due campionati vinti, nei quattro anni bianconeri, con zampate decisive, spesso entrando dalla panchina. Con la Juve e l’Italia chiude nel 1976: 25 reti in 74 partite, una media gol in rapporto ai minuti giocati da brividi. Si riserva ancora qualche buona sgambata nella vicina Svizzera fino al 1980, prima di inaugurare il ruolo di seconda voce nelle telecronache delle partite e diventare un personaggio televisivo.

 

 

 

 

 

 

Fonte: CdS

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