L a maglia era una reliquia. Il feticismo che ha alimentato, con tutto quel traffico di «santini» e «indulgenze» già indigesto a Martin Lutero, non smette di suscitare dibattiti. Il tempo, i codici e le usanze ne hanno dilatato il senso fino a trasformarla in un simbolo, peggio: in un marchio. Si cominciò senza numeri, si è arrivati ai numeri fissi e ai nomi sul fondo schiena. Sono i confini di un lungo viaggio. Con la dittatura degli sponsor, il modo di viverla si è ridotto a una moda, e anche per questo la foggia e il disegno cambiano ogni estate, con buona pace dei tifosi, monogami per scelta e non per business. Le maglie hanno «scoperto», coprendoli, i campioni dell’agonismo. Hanno creato bandiere e banderuole, hanno gonfiato il mercato, un po’ segni e un po’ sogni. Tanto che, di fronte a un atleta che abbia fatto la storia della sua disciplina, ci si chiede come regolarsi: riporla in archivio affinché rimanga il monito, eterno, oppure consegnarla come il testimone di una staffetta, affinché la (rin)corsa continui? Chi scrive è per il passaggio. L’argomento è stato sollevato nel caso di Lorenzo Insigne. Riesumare la maglia numero dieci del Napoli non significa bestemmiare Diego Armando Maradona. E nemmeno rubargliela spiritualmente. Sempre che il destinatario accetti – potrebbe non farlo per pudore, per paura, per timidezza – il trasloco sarebbe solo emblematico, allegorico, e comunque giustificato o giustificabile da elementi non secondari:
1) Lorenzo è bravo;
2) Lorenzo è napoletano di culla e d’istinto;
3) Lorenzo ha 26 anni, l’età giusta perché osi e perché noi si osi con lui scommettendo sulle sue referenze.
Nessun dubbio che il mondo dello sport debba andare oltre. Il problema è come. Attraverso una grande chiusura o non piuttosto una piccola fessura che, in base alle doti del «successore», si riveli un investimento prezioso? Sul «Corriere della Sera» Indro Montanelli aveva una «stanza» in cui rispondeva ai lettori. Alla sua morte, il compito venne affidato ad altre firme. Certo, ci sono numeri e numeri. Al Manchester United la bussola è il «sette», da George Best a Cristiano Ronaldo. Da noi, fin dall’oratorio, il «dieci». Non lo si può affidare al primo che passa. Quando il Brasile lo fece al Mondiale del 1990, con Paulo Silas, centrocampista di fatica, uscì negli ottavi contro l’Argentina di Maradona: il destino va sfidato, non canzonato. Il nostro calcio è afflitto da storture decisamente più serie del dilemma agitato. Gli americani ci sono affezionati, e hanno sedotto noi europei. La liturgia della «sepoltura» è stata così adottata e diffusa. È un’operazione di nostalgica gelosia che la militanza, i risultati e il talento hanno reso quasi morbosa in termini societari e, qualche volta, addirittura sociali. Piace persino a chi non piace. Tornando alla missione di Insigne, le idee di Maurizio Sarri ne hanno liberato la fantasia. Visto il gol al Bernabeu, da scugnizzo impertinente? E l’ultimo al Liechtenstein: palleggio, piroetta, destro? Coraggio, allora. Il ritiro della maglia riassume un’apertura al ricordo della grandezza, e alla grandezza dei ricordi, nei confronti del legittimo proprietario, ma può costituire un muro in faccia al futuro, soprattutto per quei ragazzi che si ostinano a inseguire un numero come se fosse un aquilone. A Napoli Insigne porta il 24. In Nazionale, a Udine, aveva il 10. Diego resta unico. E la sua maglia pesa, peserà sempre. Cederla a Lorenzo, però, non sarebbe un oltraggio: sarebbe un omaggio.
ROBERTO BECCANTINI (GdS)