A tu per tu ai microfoni del Corriere dello Sport:ì
La prima cosa che volevo chiederle è cosa ha provato dentro di sé nel momento in cui si è avverato il miracolo della salvezza del Crotone? «C’è stata una vera e propria esplosione di emozioni, figlia di molte cose. In primo luogo di tutto il lavoro che è stato costruito prima, con fatica e con amore. L’ultima giornata poteva e doveva avere i connotati di un incastro particolare: non bastava solo il nostro risultato, dovevamo aspettare anche la partita di Palermo. Ma nulla è successo per caso. Per tutto l’anno ho sempre cercato di dire ai ragazzi che ogni squadra, ogni giocatore, ogni allenatore ha il proprio percorso, che bisogna costantemente dedicarsi alla propria formazione, al proprio miglioramento, pensando che le cose possono accadere. Perché ce lo spiega la fisica quantistica: siamo noi i creatori della nostra realtà. Sono i nostri pensieri a farci andare veramente lontano. Quando l’arbitro ha fischiato ho sentito una gratitudine immensa. Non saprei neanche dirle verso chi o cosa. Forse verso tutto quello che la nostra determinazione e la nostra ostinazione avevano prodotto. Una gratitudine immensa e una sacrosanta soddisfazione per aver in fondo dimostrato ai miei ragazzi che tutto quello che avevo detto loro durante l’anno si stava verificando».
Come ha fatto, alla fine del girone di andata, a tenere su il morale della squadra? «Questo fa parte di una preparazione, una programmazione, di un allenamento costante che va di pari passo con il discorso tecnico tattico. Spesso non ci si vuole sentir dire che l’allenamento non è solo quello fisico, ma è soprattutto quello mentale. Io ho avuto spesso a che fare con giocatori i cui limiti non erano quasi mai fisici, tecnici o tattici ma erano soprattutto nella capacità di immaginazione, nella capacità di porsi un obiettivo, nella voglia, nella perseveranza di raggiungerlo. E questo va allenato: si può allenare anche la mente, il carattere. L’ emozione da frustrazione è una cosa che è viva e presente in ogni atleta e quindi io ho fatto vedere loro che le frustrazioni devono e possono essere riconosciute. Sono emozioni negative, che vanno riconosciute. Per tutto il campionato abbiamo fatto insieme la disamina di quello che sarebbe stato il campionato nei vari step. Dopo le prime dieci partite, dopo le seconde dieci e così via. Abbiamo costruito il nostro viaggio, non ci siamo affidati alla fredda imponderabilità di un navigatore».
Quanto conta in una squadra l’elemento psicologico rispetto a quello tecnico o tattico? «Non di più, né di meno. Nel senso che io ho una visione olistica, per me la persona è una persona, è un tutt’uno, non può essere descritta frammentandola o dividendola per comparti stagni. Noi non alleniamo tecnicamente o non ci prepariamo tatticamente, noi ci prepariamo in quanto atleti, professionisti, persone e non saprei dire dove inizia una dimensione e dove finisce l’altra».
Lei mi è sempre sembrato un allenatore con uno sguardo che andava anche oltre il calcio. Da dove le viene questa sensibilità o questa curiosità? «Io credo che la curiosità sia un aspetto del mio essere. Una delle poche cose che so riconoscere immediatamente di me. Sono maledettamente curioso, tremendamente curioso, non so se eccessivamente curioso ma se proprio devo parlare di eccesso allora preferisco avere un eccesso di questo tipo. Tutto ciò che mi circonda mi crea attrazione, mi crea curiosità e soprattutto desiderio di conoscere la logica che sta dietro le cose e gli eventi. Non so perché, è così e basta. Anche quando cammino, mi accorgo di ascoltare il mondo e di vedere se qualcosa che incontro o entra nel mio specchio visivo possa in qualche modo servirmi per quello che sto facendo o quello che sto pensando. Noi siamo osservatori del mondo e cerchiamo di dare un senso alle cose. Ma quel tipo di osservazione coinvolge anche la creazione della nostra realtà. Guardare, cercare, capire, costruire. Così credo sia la vita vera».
Lei ha conosciuto, con la morte di suo figlio quattordicenne, il più grande, il più intollerabile dei dolori immaginabili. Quanto ha contato il dolore vissuto nella sua esperienza umana? «Direi molto. Io credo che la spiritualità di ognuno di noi sia proprio la ricerca verso il senso delle nostre vite e delle nostre azioni. Soprattutto cercare, trovare un equilibrio. Una volta che un uomo trova un equilibrio trova secondo me la strada per poter gestire qualsiasi situazione. E’ chiaro che si sta parlando magari di una situazione che nessuno vorrebbe vivere e anche quando ti immedesimi in quella degli altri non è mai la stessa cosa. La mia fortuna è stata quella di avere da sempre pochi valori ma fondamentali. Noi siamo una famiglia numerosa, mia moglie, gli altri miei figli sappiamo che certe cose esistono, sappiamo che possono accadere a tutti. Per noi è stato motivo di voler di nuovo iniziare a costruire anzi, paradossalmente, ci ha dato anche più forza. Forza per il lavoro che facciamo, per ciò che riteniamo giusto e utile nella vita, per il senso che diamo ai valori che condividiamo».
Quella lettera che lei ha scritto a suo figlio dopo il risultato positivo del suo lavoro era un modo per condividere con lui una gioia che lei ha vissuto? «Sì, è nata di getto. Io ho metabolizzato, con dolore e fatica, e ho capito e sono assolutamente cosciente di quello che è successo a mio figlio, ma non lo vivo come una sospensione dell’essere. Lo vivo come un dato di fatto. E’ accaduto questo a mio figlio, come accade a molti altri. Era il suo tempo di vita, non conosco ancora quale sarà il mio, il suo era quello e in quel tempo che mi ha dato io sono stato molto felice e ho imparato tantissimo da lui. Da lui ho imparato soprattutto tre cose: a capire che si può essere contenti senza un reale motivo, ad essere sempre occupati con qualcosa, perché poi di fatto i ragazzi ti danno questo e a pretendere con ogni forza ciò che tu veramente desideri. Io questo ho imparato da mio figlio, se pure ha vissuto poco tempo rispetto a me. Mi aspetto, mi auguro, perché questo è quello che voglio pensare, la realtà che voglio crearmi, di poterlo un giorno rincontrare. Condivido con lui qualsiasi obiettivo che ho e non vedo l’ora di dedicargliene uno successivo, perché mi sembra di stare meglio».
Lei come ha cominciato a giocare a calcio? «Per puro caso. Io arrivo dall’atletica che ho fatto a livello individuale fino all’età di dieci anni. Poi mio padre voleva sapermi al sicuro, che corressi al sicuro da qualche parte. Quindi mi portò al campo, feci il primo allenamento e venni convocato per la domenica successiva. Lì iniziai a giocare a calcio perché mi divertivo di più. Sa cosa mi piaceva? Condividere qualcosa con altri ragazzi, con i miei compagni di squadra. Non si era sempre soli, come quando corri. Ma mi è sempre piaciuto correre, sentire il vento sulla faccia. Nel silenzio delle cose, della natura».
C’è stato un allenatore che è stato particolarmente importante per lei e c’è un allenatore al quale lei si ispira? «Per la qualità dei grandi allenatori che ho avuto, non potrei citargliene uno solo. Ho avuto la fortuna di conoscere il passaggio generazionale da gente come Simoni, Giorgi, Bolchi, Reja, fino ad arrivare a Delio Rossi, Beretta e tanti altri. E poi Scoglio, Perotti, Maselli, Menichini. Ne ho avuti talmente tanti che, a un certo punto, ho fatto una scelta, del tutto personale. Per ogni allenatore tenevo un quadernino dove segnavo tutte le cose che mi colpivano della persona, del modo di vedere il calcio. Nel tempo quegli appunti mi sono serviti molto».
Secondo lei cosa è successo alla Juventus nel secondo tempo di sabato? «Credo che quelle siano partite dove un gol e un episodio possono veramente fare la differenza. Dopo il 2 a 1, secondo me fortunoso, rispetto alla qualità del Real, la Juventus stava ancora facendo la propria partita, la partita che probabilmente voleva fare, ma dopo credo che sia venuta fuori la maggiore esperienza e forza di una squadra che è riuscita poi ad indirizzare la partita su binari a loro più consoni».
C’è un giocatore in particolare che le piacerebbe allenare? «Dal punto di vista del carattere e per la curiosità per il suo stile di vita e il suo approccio al calcio mi ha sempre colpito Ibrahimovic. Mi sarebbe sempre piaciuto confrontarmi con una personalità così particolare».
Lei in caso di promozione ha promesso, come un fioretto, di andare in bicicletta da Crotone a Torino. «Sì, è nato per gioco. Ad un certo punto un giornalista mi chiede “
Ma lei che cosa sarebbe disposto a fare per potersi salvare?”. Come se io dovessi convincere altre persone che credevo in quello per cui stavo lavorando. Quindi non bastava dire guardate che io lavoro, studio notte e giorno perché ci siamo dati quell’obiettivo e ci voglio arrivare. No, tu devi in qualche modo fare qualcosa di eclatante per far credere che ci credi. Il paradosso sta qui. Quindi ho partecipato a questo paradosso e ho detto che sarei stato disposto ad andare da Crotone a Torino. Lo faccio perché quello che prometto mantengo sempre. Non so quanto durerà ma ce la farò. E cercherò di dare a questa scelta anche un significato, voglio farla diventare un modo per essere utile agli altri».
Dove allenerà l’anno prossimo.«Non so dove allenerò, nel senso che il mio contratto ha un rinnovo automatico, perciò in questo momento sono del Crotone. Ma nella vita può accadere di tutto».
Qual è stato il momento più poetico di questa esperienza di salvezza? «L’ultima settimana di campionato. E la riunione tecnica prima della partita: ai ragazzi ho parlato con un tono di voce molto profondo e lento, ho detto quello che pensavo dell’annata vissuta insieme e ho fatto una domanda precisa. Ma il momento più bello sono stati gli sguardi, alla fine dell’ultima partita, di tutti quelli che hanno partecipato a questa avventura, la loro incredulità. Sembravano dirmi: cavolo, ci hai sempre creduto, sei riuscito a dimostrare che l’impossibile era possibile».
Quale era la domanda che ha fatto ai giocatori? «Ma secondo voi perché all’ultima partita ci stiamo ancora giocando la permanenza in questo campionato? Non potevamo retrocedere prima? Non potevamo salvarci prima? Perché arriviamo all’ultima partita e noi abbiamo ancora la possibilità di poterci salvare? La risposta? Perché siamo noi, solo noi, padroni del nostro destino».
Fonte: CdS