Ciccio Romano, un giocatore azzurro che quel Napoli dello scudetto l’ha vissuto, ha parlato al Corriere dello Sport.
Di mamma ce n’è una sola: poi succede che, improvvisamente, ne compaia un’altra e che porti i pantaloncini. Questa è la storia di Francesco Romano, per tutti Ciccio, per Diego Armando Maradona, la «tota», l’affettuosa etichetta che Sua Maestà aveva regalato a donna Dalma. La memoria racconta che il Napoli cambiò, tatticamente, il 26 ottobre del 1986, quando all’Olimpico di Roma debuttò Francesco Romano: serviva una «tota» per quegli scugnizzi.
Cominciamo da qui, Romano, dall’appellativo che le venne immediatamente offerto. “Ma non svelo il segreto, quello è mio e di Diego e tale rimarrà fino a quando non decideremo di renderne noto il motivo. Lui non mi ha mai chiamato Ciccio, come facevano tutti: io per lui sono sempre stato la tota e questo per una vicenda, curiosa e gustosa, che è soltanto nostra, un patto di amicizia che resta ed a cui, stavolta, ed è la prima, faccio riferimento. Ma senza rivelarne ulteriori particolari”.
Così non si fa…? “E’ un pizzico di mistero che giornalisticamente dà piacere”.
Lei e lo scudetto. “Io ed il Napoli, vorrei dire. Perché è stato un periodo fantastico, che conservo e porto dentro, come tutti i protagonisti di quel tempo. Però la mia vicenda fu particolare, nasce a campionato in corso”.
La catapultarono in campo a Roma e fu la prima svolta. “Se permette, vado per gradi e la ricostruisco per intero. Perché ci divertiremo a riviverla adesso”.
Riportiamo fedelmente. “Gennaio 1986, io ero a Trieste ed affrontiamo l’Ascoli, so che in tribuna c’è Casati, il vice di Ottavio Bianchi, e che è lì per me. Gioco avendo di fronte Liam Brady, non so se mi spiego. Grossa prestazione in una di quelle giornate in cui la bora ti può portar via. Ed invece resto. Ma anche con piacere, perché rientravo tra i pilastri di quel progetto. Però avevo anche voglia di grande calcio: avevo fatto quattro anni al Milan, ero da tre con la Triestina e quella mi sembrava una opportunità straordinaria”.
Il Napoli si distrae, almeno così sembra. “Leggo accostamenti importanti: Leo Junior, Barbas, e penso sia finita. Invece, e siamo già nella stagione successiva, all’epoca c’era il mercato di riparazione in autunno, arriva Pierpaolo Marino a Trieste ed in un giorno solo chiude l’affare. Dovevamo andare a Bari, parto con la squadra ma non gioco, d’accordo con la società. Dopo la partita, papà mio mi porta a Napoli, firmo ed entro a Soccavo”.
Il martedì è dalla serie B alle soglie dello scudetto. “Ricordo Ottavio Bianchi che mi disse poche e decisive cose. Organizzò subito una partitina in famiglia, osservò. E il venerdì mi chiese: come stai? Risposi: bene. Stai tranquillo, domenica giochi tu: fai le giocate che sai, senza pressione. Mi sentii un altro e ritengo Bianchi uno dei capisaldi di quel successo”.
Fu facile, subito. “Perché vincemmo. Ma il Napoli era reduce dal pareggio in casa con l’Atalanta e dalla eliminazione in Coppa Uefa. E avremmo dovuto incontrare, nell’ordine, la Roma, l’Inter e la Juventus: lì cambiò la stagione”.
Gli ingredienti? “Il buon senso di Ottavio Bianchi. Avevamo uno squadrone, ma eravamo due blocchi tecnici: lui riuscì a fonderli e a darci quell’equilibrio che ci serviva”.
L’allenatore giusto nel momento ideale. “Esatto. Perché Bianchi trasmetteva anche sicurezze, spegneva le tensioni naturali in una stagione così ricca, in cui si era consapevoli tutti che si stava per costruire la Storia. A volte ci veniva da pensare: adesso o mai più. Ma era un attimo, perché si ebbe presto la consapevolezza della nostra consistenza, anche a livello caratteriale. In quel Napoli lì si combinavano varie qualità, anche caratteriali: gente di spessore, che non avvertiva alcun tipo di timore, dinnanzi alla possibilità di un Evento del genere. Lo volevamo quello scudetto e ce lo prendemmo”.
E avevate Diego: cosa sarebbe stato, senza? “Non so se ce l’avremmo fatta, perché le qualità di ognuno di noi erano indiscutibili, ma Diego è stato e rimarrà il più forte calciatore di tutti i tempi. Uno come lui non nasce più, siamo all’irripetibile. E dunque…”.
Cos’eravate, insomma? “Il Napoli più grande di sempre, lo dico senza immodestia e senza nulla togliere niente agli altri. Poi non so in quale classifica sia possibile inserirlo, né se ci sarà un altro Napoli capace di batterlo”.
Si può dire che vinceste poco? “Certo che sì, anche se il calcio è cambiato e se quella squadra fosse esistita adesso sarebbe andata dritto in Champions ogni anno: scudetto nell’87, secondo posto nell’88 quando lo perdemmo nel finale ed ancora mi rode, e nell’89, contro l’Inter dei record. Ecco, in questa epoca qua, si sarebbe parlato di rendimento straordinario. E con i soldi della Champions, immagini lei”.
Mai temuto di perderlo? “Mai una volta, perché quando pure capitava una giornata storta, e dunque sembrava si potesse lasciare una speranza alle altre, riuscivamo a riprenderci immediatamente ed a togliere qualsiasi illusione. Giocavamo contro squadre spaziali, lo era ad esempio anche quella Juventus. Ma noi eravamo di un’altra dimensione: perché Maradona giocava con noi”.
Corriere dello Sport