Insigne su Repubblica: “Due sono i giocatori della Juve che mi hanno dato più calci, un ringraziamneto particolare a Benitez”

Lorenzo Insigne, intervistato da La Repubblica, ha parlato dell’impegno di questa sera del Napoli in Champions League contro il Real Madrid ed ha evidenziato che per la sua squadra non sarà una sfida semplice, ma l’allenatore Maurizio Sarri ha detto a tutti di stare tranquilli e di giocare come sanno fare. Di seguito le sue dichiarazioni:

Insigne ecco i l Real Madrid…
«Sappiamo che è una grande squadra, davanti hanno Ronaldo: il miglior giocatore del mondo insieme a Messi. Ma il mister ci ha detto di stare sereni, resta comunque una partita di calcio. Magari riusciamo a tornare a casa con un buon risultato per giocarci la qualificazione al San Paolo, uno stadio che può incutere timore perfino al Real».

L’arma migliore del Napoli?
«Il gruppo che ha creato Sarri, con lui nessuno si sente escluso. Tutti sanno che prima o poi arriva la loro occasione, e ognuno sa quello che deve fare».

Lei è l’unico napoletano della rosa oltre al terzo portiere.
«E questo aumenta la pressione, i tifosi si aspettano sempre di più da me. Lo stesso che succede a Totti, Florenzi e De Rossi nella Roma».

Sarri dice che lei ha a “faccia di culo” sufficiente per sopportare al pressione.
«In campo penso soltanto a divertirmi e a vincere».

Cosa la diverte del calcio?
«Tutto. Se fosse per me, mi allenerei tutti i giorni con il pallone. Mi mettono a correre senza la palla e divento pazzo. Dove sto io dev’esserci un pallone: è il vizio che ho fin da piccolo».

Sarri le ha dato più libertà in campo rispetto a Benitez?
«Devo ringraziare Benitez: con lui ho imparato l’importanza della fase difensiva. Prima mi preoccupavo solo di quella offensiva. Nel calcio di oggi in Europa, devi essere bravo sia ad attaccare, sia a difendere».

Qualcuno la rimprovera che dribbla troppo?
«No. Sarri dà libertà totale a me, Callejòn e Mertens negli ultimi 30 metri. Ci chiede solo di stare attenti nei ripiegamenti».

Com’era con Zeman invece?
«Ti divertivi… Con lui esisteva solo la fase offensiva: “preoccupati di attaccare”, mi ripeteva».

Cosa le ha insegnato?
«A vivere lontano da casa. Quando andai con lui al Foggia era la prima volta: all’inizio mi pesava, di sera soffrivo. Quelli che non conoscono Zeman dicono che non ride mai: tutto il contrario, scherzava sempre. Se sono arrivato fino a qui è per la fiducia che mi ha dato».

Che cosa serva a un calciatore per arrivare in alto?
«Sapersi sacrificare. Io ho rinunciato a tante cose: a uscire il sabato sera, a fare tardi con gli amici. A Napoli ci sono tanti giocatori di talento che non arrivano in altro perché non hanno la capacità di rinunciare a tante cose. Io devo molto ai miei genitori, perché quando avevo 17-18 anni il coprifuoco era alle 22.30, mentre i miei amici tornavano all’una. E prima delle partite andavo a letto alle 20. Sono cresciuto in un quartiere operaio, tra casini di goni tipo. I miei mi hanno aiutato molto, sarò sempre grato a loro per questo».

Cosa serve per restare in alto?
«Professionalità e serietà. A me piace arrivare sempre un’ora prima agli allenamenti».

Qual è il difensore che le ha dato più calci?
«Sono due: Chiellini e Barzagli, ma è il loro lavoro».

Quanti tatuaggi ha?
«Ho perso il conto. Ma adesso basta, mia moglie mi ha detto che se me ene faccio un altro non mi fa più entrare in casa».

Da bambino collezionava figurine?
«No. Pensavo solo a giocare».

A chi avrebbe chiesto l’autografo?
«Ad Alessandro Del Piero: per il suo modo di giocare, per come tirava le punizioni, per la sua professionalità. E perché non discuteva mai con nessuno né dentro né fuori del campo».

Il regalo più bello che ha ricevuto quando era piccolo?
«Gli scarpini di Ronaldo, il fenomeno. Mio padre lavorava al Nord, tornava a casa ogni due settimane e portava me e i miei tre fratelli a comprare scarpini da calcio. Lo facevo girare a piedi per tutta la città finché non trovavamo quelli di Ronaldo…».

In via Rossini, dov’è nato e cresciuto, la ricordano come il “rompiscatole”
«Perché c’era un muro gigantesco e passavo il giorno a palleggiare contro la parete, dalle 7 del mattino fino a quando mia madre mi chiamava. Si lamentavano tutti del rumore, però a qualcosa è servito, direi…».

La strada come scuola?
«Sì, è lì che ho cominciato. Giocavo per la strada, finché il padre di un amico venne nel quartiere e ci chiese di iscriverci. Lo fece mio fratello, di tre anni più grande. Un giorno andai a vederlo e dissi che pure io volevo giocare. Mi dissero di no, ero troppo bassino. “Come? Io voglio giocare”. Scesi in campo e non ne uscii più».

Cosa ha imparato in strada?
«A non arrendermi mai, e a trasmettere tutta la grinta e la felicità che sento quando scendo in campo».

Fonte: repubblica.it

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